" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Parmenide (Platone)

sabato 13 agosto 2011

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Il tema del Parmenide prende le mosse da quella Platone dice la prima ipotesi del libro di Zenone, che è già stata una messa in discussione della tesi di Parmenide, filtrata attraverso l'interpretazione di Platone: "Se le cose che sono, sono molte, esse debbono essere simili tutte e anche tutte dissimili, e ciò è impossibile". Tale la ragione per cui sottolinea Zenone, se è vero che, seguendo Parmenide, ponendo come ipotesi "l'affermazione che il tutto è Uno ne viene gran numero di conseguenze risibili e in opposizione al discorso stesso che afferma l'unità del tutto", altrettanto vero è che coloro che, di contro a Parmenide, essendo impossibile pensare l'Uno, sostengono l'ipotesi "della molteplicità del tutto" cadono nelle stesse assurdità di chi "ammette l'unità".In realtà Zenone, difendendo Parmenide, viene a negare sul piano logico, mediante i suoi paradossi, sia la possibilità di pensare l'Uno sia la possibilità di pensare i molti-uno. E questo è indubbio: se è vero che ogni cosa è quella che è in quanto è (per cui ogni cosa è una), è vero che ogni cosa, per quel che è, è simile a un'altra, onde, tutte uguali, le cose, per quel che sono, sono l'Uno, si annullano nell'Uno; ma, per altro verso, poiché ciascuna cosa è per essere quella che è nella sua individualità dissimile dall'altra, cadiamo nella contraddizione, ammesso che ogni cosa è una e molte, che ciascuna cosa è, ad un tempo simile e dissimile.
Orbene, sottolinea Platone, tutto questo sarebbe esatto se implicassimo come al tempo di Parmenide, che l'essere, il ciò senza di cui la cosa non è (essenza) coincide con l'esistenza della cosa, per cui ad un tempo ogni cosa sarebbe una e molte, simile e dissimile.
In altri termini ciò sarebbe vero se, ad esempio, il ciò per cui l'uomo è uomo (l'essenza uomo) coincidesse con gli esistenti uomini, gli uni diversi dagli altri. Di qui, fin dal principio, l'esigenza platonica di postulare le idee, distinguendo l'essenza (la forma) dall'esistenza (l'esserci accidentale e sensibile): in tal modo ogni cosa per il suo esistere è dissimile dall'altra, per cui partecipa dell'idea a sé di dissomiglianza, mentre per la sua essenzialità (la sua forma, visibile con l'occhio della mente) è simile all'altra, per cui partecipa dell'idea di somiglianza.
Solo che distinguendo essenza (idea) da esistenza (l'esserci molteplice e sensibile di ciascuna cosa e delle cose) si viene a separare ogni idea (una) dalle loro cose (molteplici) ed a separare l'una idea dall'altra idea (idea della somiglianza, idea della dissomiglianza, idee del bello, idea del brutto e così via) e a dovere ammettere idee infinite, che non si vede come non possano ridursi che all'Essere Uno.










Quando, dunque, riferendosi ad oggetti (esistenti), si passerà a dimostrare che lo stesso oggetto è uno e molteplice, per esempio pietre, legni e simili, noi diremo che dimostra che qualcosa è una e pure molteplice, ma non che il genere dell'uno come tale è molteplicità, o che il genere della molteplicità come tale è unità (...). Se, invece, degli oggetti di cui parlavo poco fa, uno prenda dapprima separatamente gli aspetti uno per uno, per esempio somiglianza, dissomiglianza, pluralità, uno, quiete, moto e ogni altro simile, e poi li mostri tali da potersi mescolare insieme e poi ancora distinguersi, allora sì, Zenone, io me ne rallegrai. Tu hai condotto a termine, a mio parere, la tua opera con grande ardimento, am come ti dico, sarei veramente molto più lieto se qualcuno sapesse mostrare e spiegare questa aporia nei generi (èidesi) di ciò che svariatamente si presenta intrecciato, così come voi faceste il visibile (esistente), anche per ciò che viene colto dal ragionamento (loghismò) (Parmenide).



Pur riconosciuta giusta l'esigenza di porre le idee, le forme "di cui partecipando queste cose nostre, che sono altre, prendono lor nome le cose", e dovendo porre le forme come essenze separate dalle esistenza, si va incontro ad una serie di aporie che rendono alla fine impossibile il giudizio e la scienza. Tutto il veleno della questione sta nel termine "partecipazione" (metèssi), cui già si accennava nel Fedone.
Se l'essenza è quella che è, è semplice e indivisibile, ed è separata dall'esistenza, dire che le cose esistenti partecipano dell'essenza è contraddittorio. Sotto questo aspetto non vale né l'ingegnoso modo di concepire l'idea una e indivisibile come la luce del giorno, ch'essendo una e medesima è contemporaneamente in molti luoghi, o come una specie di unico velo disteso su molte cose (anche in questi casi l'idea dovrebbe dividersi, e ciascuna cosa sarebbe quello che è per un pezzetto della sua essenza); né vale dire che le forme sono unità sintetiche, ché allora dovremmo ammettere accanto a ogni forma la forma di quella forma e così via all'infinito, per cui di ogni idea esisterebbero infinite idee (abbiamo qui in nuce l'argomento del terzo uomo); e neppure si può sostenere che le forme non stiano in altro che nelle nostre anime (siano concetti), perché essendo ogni pensiero pensiero di qualcosa, bisognerebbe che le cose, partecipando del pensiero, siano pensiero esse stesse e che il pensiero sia le stesse cose, per cui cadremmo nell'assurdo che il pensiero penserebbe in quanto pensiero e non penserebbe in quanto cosa.
Escluso il concetto di partecipazione, va esclusa anche l'ipotesi che le forme siano come modelli (archètipi) e che le cose siano copie di quelli, siano fatte a loro imitazione: primo, perché essendo il simile simile al suo simile, ed essendo necessario che due cose che si assomigliano partecipino a qualcosa di unico e identico e che, dunque, sia la forma ciò di cui i simili partecipando sono simili, non sarebbe ammissibile che qualche cosa fosse simile alla forma, né che questa lo fosse ad altra; altrimenti vicino alla forma comparirebbe sempre un'altra ancora, all'infinito; secondo, perché ammesso che le forme siano distinte e per sé stanti, esse allora divengono impensabili e inconoscibili, "ché nessuno di tali esseri può trovarsi sul piano della nostra esperienza sensibile", per cui proprio quelle forme che dovrebbero stare a fondamento della "scienza", verrebbero a trovarsi oltre ogni possibile scienza.
Non solo, ma alla rovescia, posto che l'uomo non può avere scienza delle forme, e che scienza delle forme non può averla che la divinità, per le stesse ragioni di prima si dovrebbe concludere che allora la divinità non ha scienza dell'uomo, e che, pertanto, è impossibile, sul piano delle essenze, ossia delle sostanze-forme, la scienza e la dialettica.














E allora se si ammetterà che tali forme non siano, e ciò a causa di quanto abbiamo detto fin qui e di altre simili aporie, e non ci si vorrà porre e definire una forma cui debba riferirsi ciascuna cosa, non avremmo neppure dove rivolgere il pensiero, perché non si ammetterà l'esserci sempre di ciò che è proprio delle cose che sono, e così distruggeremmo del tutto la potenza dell'arte dialettica (dialèghesthai)






Evidentemente la discussione di Platone da un lato porta a dimostrare l'esigenza - di contro a Zenone - di distinguere essenza da esistenza, e, dall'altro lato, porta, distinto il ciò che è sempre (l'essenza) dell'esistere accidentale, perché sia possibile la potenza e la definizione (ossia la classificazione), a mettere in evidenza, proponendo una serie di ipotesi, tutte le aporie cui si va incontro, proprio in funzione della scienza e della dialettica, se si pongono le essenze (forme) per sé, giungendo alle estreme conseguenze della dialettica cinica e di quella megarica. E allora, sempre indipendentemente dai dati sensibili, sulla linea di Parmenide, si può giungere ad annullare ciascuna essenza, identica all'altra per il proprio essere, all'Essere Uno.
Platone già dal Menone (non è che un accenno: "l'anima ricordando- ricordo che gli uomini chiamano apprendimento - una sola cosa, torva da sé tutte le altre, ché la natura tutta è imparentata con se stessa": Menone, e poi, sia pur per vie diverse, nella Repubblica e nel Fedro, aveva sostenuto che le idee sono quelle che sono, hanno la possibilità di essere e di dialettizzarsi tra di loro solo supponendo una unica ragion d'essere (il bene e il bello), che non è Essere, ma ciò che dà vita agli esseri e dà loro intelligibilità, e pertanto verità.
Solo che tale unità, simile all'unità vivente del discorso uno nel suo trascorrere da termine-idea a termine-idea, nell'unità di una molteplicità, non può essere posta che negativamente: ad essa si potrà giungere (dalla sensibilità all'intellezione), da essa si potrà discendere ma di essa nulla si potrà dire se posta aprioristicamente e onticamente.
Di qui prende le mosse la seconda parte del Parmenide in cui si vuol dimostrare come nulla si può dire dell'Uno, qualora la definizione dell'Uno si sottoponga al "serio giunco della dialettica", cioè si proponga una serie di ipotesi su come dire l'Uno, positivamente (se l'Uno è Uno) e negativamente (se l'Uno non è Uno), vedendo tutte le aporie implicite in ogni possibile definizione di esso. Fa dire Platone a Parmenide:




Anch'io sento di avere paura, per il ricordo che ne ho, pensando a come farò ad attraversare, a quest'età, tale e tanto mare di parola (...). Volete, dato che si è dell'avviso di giocare questo giunco serio, che io cominci da me stesso, dalla mia ipotesi, ponendo, intorno all'Uno in quanto tale, sia l'ipotesi che l'uno sia uno, sia l'ipotesi che non lo sia e domandandomi quali ne sono le conseguenza?
Non è questo il luogo di riferire minutamente la rarefatta discussione logica, e il tale e tanto mare di parole che essa comporta discutendo le implicazioni di ciascuna ipotesi.


Le due serie di deduzioni, che si svolgono dalle singole ipotesi (cinque per l'ipotesi che l'Uno sia, quattro per l'ipotesi che l'Uno non sia) raggiungono lo stesso risultato per l'una e per l'altra. All'interno di ciascuna deduzione (svolta in forma diairetica), le conclusioni sono in contraddizione con le premesse e ciascuna ipotesi con se stessa, ed egualmente in contraddizione tra di loro sono le deduzioni dell'una e dell'altra serie.
Ci troviamo, dunque, alla fine, di fronte all'impossibilità di dire e che l'Uno sia e che l'Uno non sia, o meglio ci troviamo a dover dire che l'Uno è e non è. E allora, relativamente alla condizione prima del pensare, poiché non si può negare l'Uno, come possibilità dell'esserci delle idee nel discorrere tra di loro, altra ha da essere la possibilità dell'Uno come essere, e come condizione perché sia possibile il discorso tra le idee, e quindi altro deve essere il metodo.
Non a caso così si chiude il Parmenide:


E allora se l'uno non è, niente è (...), e, com'è risultato, dobbiamo aggiungere che sia che l'uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri, rispetto a se stessi e reciprocamente tra loro, sono tutto secondo ogni modo di essere e non lo sono, appaiono essere tutto, secondo ogni modo di essere e non appaiono così.




Negato l'Uno come essere assoluto e compatto e il non Uno come non essere assoluto ne viene fuori- come risulta dall'ipotesi seconda, "l'uno è", e dalle conseguenze esposte nella terza e quarta ipotesi, e dalla sesta ipotesi, "se l'uno non è" in senso relativo - che l'Uno è in quanto si determina qualificando i molti - gli altri dall'uno - che dunque sono in quanto, a loro volta, suppongono l'Uno.
E allora l'Uno in quanto non Essere, ma condizione degli esseri, suppone, a sua volta, in quanto qualificante e specificante, una non qualità, un'indefinita quantità, un non essere come "materia" della specificazione e pertanto, dell'esistere.
Sarà questa la estensione indefinita (la chòra), lo spazio, ossia la materia del Timeo.




Fonte: Platone, vita, pensiero, opere scelte "I grandi filosofi"

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