" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Riflessioni su Lévinas

venerdì 28 ottobre 2011

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Oggi vi propongo un articolo scritto dal lettore Fabio Cirillo. Vi invito a leggerlo e a riflettere su quanto scritto.
Buona lettura!





Tra i contributi che Martin Heidegger, uno dei più grandi pensatori del XX secolo, ha dato alla filosofia, i principali sono certamente l’idea di differenza ontologica (l’esser-ci dell’ente), e la teoria dell’essere-per-la-morte.

Emmauel Lévinas (1905-1995), filosofo lituano, in lingua francese, prese le fila del suo ragionamento proprio da Heidegger. Egli sosteneva che se ogni essere è quello che è qui ed è ora, e se ogni possibilità dell’essere è scandita dai tempi della morte, allora ogni ragionamento etico è solo ironia. Nell’esser-ci l’azione etica (per come la intendeva Kant, ovvero attraverso l’intento) non può avvenire.
















Il darsi dell’altro è percepito dal medesimo attraverso una riduzione, tale riduzione è violenza,è una violenza propria dell’essere, l’uomo percepisce gli oggetti attraverso il darsi di questi ai propri sensi, non ha altro modo di percepire se non i sensi stessi, quindi la fenomenica riduzione dell’altro al medesimo è una violenza irrimediabile.

La pace non è vista in se, bensì come una condizione transitoria tra una guerra e l’altra, una situazione immanente nella quale il medesimo è incatenato dato che è qui ed è ora, e questo essere qui ed ora è dettato dal rapporto col non essere, col nulla, con la morte.



Dove allora può accadere l’etica?!


Lévinas afferma che questa è possibile, ma deve prevedere una non riduzione dell’altro al medesimo, un paradossale percepire l’altro in assenza dell’io che percepisco, in assenza (o meglio “prima”) del mio esser-ci. Come questo può accadere se l’essere è “gettato” al mondo, è gettato nel suo “qui ed ora”?
Levinas oppone all’esser-ci heideggeriano un altrimenti-che-essere:
il darsi del volto dell’altro (“la vedova, l’orfano e il forestiero” immagini prese dalla Tohrà) genera nel mio esser-ci una paralisi, io non sono più qui ed ora, ma sono ostaggio dell’altro, io patisco per l’altro, provo il dolore dell’altro a prescindere dalla mia esistenza. Io non “ci sono”, eppure sono (altrimenti-che-essere), sono in identità con l’altro prima di esservi in differenza, e questa differenza avviene proprio grazie al fatto che il mio essere qui ed ora è paralizzato.

Come questo meccanismo si traduce in prassi? Come torno al mondo?  

Grazie alla comparsa del terzo, un altro prossimo che attraverso la sua esistenza mi “libera” dalla “paralisi”… la fenomenologia del volto ha generato però in me una epifania, quando tornerò al mondo non avrò “dimenticato” ciò che ho “appreso” in identità con l’altro. Tornerò nel mio esser-ci come soggetto Giusto. Tale giustizia può portare ad una coscienza e quindi ad una trascendentale etica che ponga la pace come condizione assoluta e non come periodo transitorio tra una guerra e l’altra.
Per quanto utopistica sia, l’etica lévinasiana, intriga ed affascina soprattutto a livello teoretico e pratico, (forse un po’ meno a livello storico e politico, quando diverrà una apologia allo stato di Israele).

Jaques Derrida (1930-2004) critica le teorie di Lévinas asserendo che in realtà, tra il medesimo e l’altro, e tra il darsi del secondo al primo, non c’è immediatezza alcuna, e che la paralisi stessa (che comunque continua a sussistere) è violenza.    





Chiediamoci a questo punto se una azione morale, causata dall’epifania del volto, sia davvero tale:
un atto, per essere definito morale, prevede il libero arbitrio da parte di chi lo compie. Immaginate che Dio abbia già scritto il mio destino e mi abbia mandato al mondo, se io ucciderò qualcuno o ne salverò la vita, di tale azione non me ne si può dare ne la colpa ne il merito, io non ho possibilità di oppormi ad un qualcosa di già scritto, non c’è possibilità, nel caso del destino ve n’è solo l’illusione, se io sono destinato ad uccidere, per quanto voglia non uccidere, non ne ho la possibilità.

Se in ambito determinista non esiste morale, in ambito possibilista si: se io ho due possibilità e tra le due posso scegliere liberamente (posso uccidere quanto non uccidere) attraverso la mia volontà, allora Della scelta che prenderò io sarò responsabile, e quindi mi sarà potuta dare la colpa o il merito ( a seconda del ragionamento morale).

L’azione etica conseguente al darsi del volto non è libera: essendo il mio esser-ci paralizzato, io non adopero la mia volontà, quindi io non sono responsabile dell’azione compiuta. Nell’altrimenti-che-essere io non adopero la mia volontà, e se l’azione che compio non è da me voluta, allora non me ne si può dare il merito (quindi l’eticità).

L’azione morale che consegue l’epifania del volto non è libera, non è una possibilità, è bensì determinata, come se fosse destino!




                                                                        Fabio Cirillo
                           






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