Per capire le logiche che presiedono al pensiero politico dell'Antichità e, quindi, per intendere quanto la politica contasse nella vita degli uomini delle democrazie di allora - per non parlare nei regimi di monarchia assoluta successivi, abbattuti, infine dalle rivoluzioni liberali del Seicento e del Settecento - bisogna operare una netta distinzione, parafrasando il celebre saggio di Benjamin Constant, fra "la libertà degli antichi e dei moderni".
Nella Grecia di Plutarco la politica era parte integrante, e imprescindibile, della vita privata di ogni cittadino; che non godeva, perciò, di una propria sfera autonoma rispetto a quella pubblica. Il cittadino, in quanto tale, era, al tempo stesso, soggetto e oggetto della politica perché politica e vita privata coincidevano e si sovrapponevano indissolubilmente.
La libertà degli antichi si identificava col diritto-dovere di partecipazione alla vita pubblica della polis di appartenenza alla quale, peraltro, potevano accedere, con pieno titolo di cittadinanza, solo i maschi e dalla quale erano, pertanto, esclusi gli schiavi e le donne.
"In qualunque carica uno entri comandi, ma sei a tua volta comandato".
Nella Grecia soggetta alla dominazione romana, al tradizionale, e politico, diritto-dovere di partecipazione alla vita pubblica, si aggiungeva, così, il dovere di rispondere ai proconsoli, ai luogotenenti di Cesare, in una condizione tipica delle condizioni in cui erano i popoli soggetti a Roma. Esattamente come, molti secoli dopo, sarebbe accaduto ai notabili locali delle (moderne) comunità sette-ottocentesche sulle quali esercitavano il loro controllo le potenze coloniali.
La libertà dei moderni riconosce, invece, al cittadino un ambito privato all'interno del quale egli opera le proprie scelte in perfetta e totale autonomia e indipendenza rispetto alla partecipazione, per quanto civilmente e persino moralmente auspicata, alla sfera pubblica, in definitiva all'impegno politico.
Nessuno, nelle contemporanee democrazie liberali, è obbligato, dalla legge o dalla consuetudine, e neppure è moralmente tenuto, a partecipare alla vita pubblica dello Stato di cui è cittadino.
Fra le libertà dei moderni c'è (anche) quella di ciascun individuo di non fare politica, e il diritto, conseguente, di occuparsi degli affari propri senza interferenze e condizionamenti che derivino a chi, invece, fa politica. Il principio di cittadinanza implica il godimento di libertà e diritti soggettivi, sanciti, riconosciuti e tutelati dall'Ordinamento giuridico statuale, nonché alcune conseguenze di natura politica, ma alla cui osservanza è attribuito un carattere fondamentalmente "passivo", quale è l'eleggibilità a cariche pubbliche, e che non hanno affatto una natura prescrittiva.
I calzari dei romani
I Consigli politici di Plutarco a Menemaco, vanno letti, dunque, in questa chiave, cioè nella (loro) doppia veste: di trattatello propedeutico per chi si appresta ad avere formalmente responsabilità proprie dell'uomo politico, e di indirizzo etico- politico per chi si trova nella doppia veste pubblica e privata di semplice cittadino. Sono consigli che, per quanto riguardano Menemaco, nella sua specifica funzione di uomo politico a tutti gli effetti, attengono, innanzi tutto, ai rapporti di forza, nell'espletamento delle sue funzioni interne, locali, fra sé e i "calzari dei romani", il dominio esterno, della potenza imperiale e colonizzatrice. Sono, altresì e al tempo stesso, precetti che riguardano, in secondo luogo, ma non secondariamente, Menemaco, in quanto cittadino greco nella sua generica veste (anche) di partecipe della vita pubblica della propria polis.
E', del resto, grazie a questa duplice funzione, che i "consigli" finiscono con assumere la natura di un piccolo trattato- diremmo noi, oggi, di "formazione politica"e, parimenti, di "educazione civica"- che ha un carattere universale. Non stupisce, pertanto, che a fondamento sia della parte cosiddetta di "formazione politica", sia di quella di cosiddetta "educazione civica", peraltro non facilmente distinguibili e separabili, Plutarco ponga, quale filo conduttore nello sviluppo della sua intera teorizzazione, due particolari doti che si ritroveranno puntualmente anche negli scritti di teoria politica e civile rinascimentali, a educazione del Principe: la moderazione e la prudenza.
Giudizio e ragione
Moderazione e prudenza, sottolinea Plutarco, sono, a loro volta, la risultante della prevalenza della ragione- tema che farà capolinea negli scritti degli Illuministi francesi del Settecento-sulle passioni.
"Anzitutto", egli scrive, "sia stabilita per l'attività politica come base sicura e stabile la scelta che trae il suo principio sul giudizio e sulla ragione e non un fuoco di paglia dettato da vanogloria o amore di contesa o per mancanza di altre attività".
Solo poche righe prima, definisce il politico "uno che sa dire parole e portare a termine i fatti", perché non ha tempo "di considerare la maniera di vita un filosofo, distinguendo, così in nuce, teoria empirica (propria del politico "che fa") e teoria filosofica della conoscenza (del filosofo, che "filosofeggia"), ciò che la moderna Scienza politica farà molti secoli dopo.
Profetiche appaiono, infine le parole sulla moralità privata dell'uomo politico: "Quelli che si occupano di politica non solo debbono dare conto di quello che dicono e fanno in pubblico, ma si indaga anche con curiosità sul loro banchetto, sugli amori, sul matrimonio, su quanto fanno di scherzoso e di serio".
Paiono scritte per certi nostri uomini politici.
Fonte: Corriere della sera, Sette numero 12 22 marzo 2012
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