Per Francesca Rigotti, autrice di un prezioso e delizioso volumetto su "La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria", cucinare significa seprarare e ricomporre, in forme ordinate e secondo rituali precisi, le materie prime che compongono i cibi. Alla presenza del fuoco che, come lo spirito, "solvet et coagulat", gli elementi si uniscono e si dividono, le cose si assimilano o si separano fra loro. La cucina non è un universo caotico, in cui tutto e il contrario di tutto possono essere mischiati, come in un unico calderone ove cuoce il terribile minestrone del brodo universale. La cucina, scrive Rigotti, è, invece, un "sistema chiuso", dotato di rituali e regole precise, che vanno rispettate, oppure violate, ma solo dopo esser state ben apprese. Queste regole e questi rituali si chiamano ricette. Le ricette sono, in cucina, ciò che per Platone, in filosofia, erano le idee, ossia modelli intellettuali, dotati di una loro forma e di una loro conoscibilità specifica. Mediante le ricette i piatti acquistano l'universalità dell'originale: sono, cioè, identificabili e riproducibili. Guardando alle ricette così come il demiurgo guarda alle idee, il cuoco può sfornare un'illimitata teoria di copie alimentari, assicurando una stabilità e una riconoscibilità dei piatti e delle portate. Fra gli appunti di Kant che precedono la stesura della "Critica della ragion pura" ve n'è uno che afferma che "nel gusto ognuno di noi ha il modello o l'idea originale in testa".
Ma il fondamento che cucina e filosofia hanno in comune, sin dalla più antica metafisica greca, è quello che la totalità di qualcosa non coincide con l'enumerazione delle parti che la compongono. Così come il risultato di un piatto, per esempio un timballo o un soufflé, è superiore alla semplice addizione dei suoi ingredienti, anche il tutto è superiore alla mera somma delle parti. "L'uva passa", scriverà Wittgenstein in un efficace aforisma culinario dei suoi "Pensieri diversi", "può anche essere quanto vi è di meglio in una torta; ma un cartoccio di uvette non è migliore di una torta; e chi ce ne offre un cartoccio pieno non per questo sarà in grado di cucinarci una torta - e tantomeno di fare qualcosa di meglio". In greco il cuoco si dice "màgheiros", "colui che impasta", da una radice "mag" che risuona nel nostro "mangiare", ma soprattutto nel tedesco "machen" e nell'inglese "to make", ossia nel più generico "fare". Se i manuali di storia della filosofia ci presentano il primo grande dilemma del pensiero occidentale consumarsi intorno al problema dell'uno e del molteplice, con la tenzone fra i cuochi-filosofi di scuola eleatica, come Parmenide, o di scuola ionica, come Eraclito, sulla questione non esiterà a schierarsi neppure la cucina comune. Ci sono, infatti, piatti pluralisti per antonomasia, come, per fare un esempio, la macedonia di frutta, la paella, il cous-cous o una buona insalata mista, mentre nella trippa, nella cassoeula, nel passato di verdura, nelle tortillas o nella frittata di cipolle, gli elementi del molteplice si fondono gli uni con gli altri, mescolando sapori ed odori in unica ed armonica sintesi.
Inutile dire che in cucina come in filosofia l'Occidente ha sempre preferito la soluzione monista e la culinaria magnifica l'assimilazione, piuttosto che la separazione. Sarà forse per questo che Jean-Paul Sartre, nel descrivere il difetto prevalente del pensiero occidentale, parlerà di "filosofia alimentare", di "filosofia digestiva" che deglutisce e assimila le cose, privandole della loro corposità. Contro questo paradigma del pensiero Sartre indicherà la fenomenologia di Husserl, antidigestiva per eccellenza, che ci strappa dalla "nera intimità gastrica" degli stomaci di coloro che intendono la conoscenza come possesso, consentendo di vedere "le cose stesse" all'aperto, fuori dalla coscienza. Digestiva per eccellenza è, invece, la filosofia di Hegel, che nel processo dialettico e nella conoscenza del soggetto vede in opera lo stesso meccanismo della digestione dei cibi, così com'era stato riassunto da Spallanzani e dalle osservazioni della moderna fisiologia medica: "l'organismo assorbe immediatamente, in quanto potenza universale, il cibo ingoiato, ne "nega" la sua natura "relativamente" inorganica e lo pone come identico a sé, cioè lo as-simila". In tempi di cibi transgenici e polpettoni fast-food, questa assimilazione-incorporazione dell'oggetto-cibo al soggetto-mangiatore non può non destare qualche preoccupazione. Di qui la "nausea" del filosofo, come ci insegnerà il fortunato romanzo di Sartre, che oppone al mondo vischioso, molle e dolciastro dell'esistenza, simile ai Big Mac e all'Apple Pie che ci spacciano i McDonald's, la coriacea durezza della coscienza, la sua croccante semplicità.
Croccante come i cracker di Wittgenstein, che interrompevano i frequenti digiuni dell'autore del "Tractatus logico-philosophicus". Sì, perché filosofia e culinaria possono anche opporsi radicalmente, come sosteneva Platone nel "Gorgia", in quanto, mentre la filosofia ha per mira il benessere dell'anima mediato dalla conoscenza, la culinaria mira solo al piacere del corpo e procede per tentativi. Essa è paragonabile, quindi, a tutta una serie di pseudo-arti, come la ginnastica, la cosmetica e soprattutto la retorica. Arti senza conoscenza, che lusingano i nostri sensi, ma che spesso sono controproducenti per la nostra salute. Così la filosofia sta alla retorica come la dietetica medica sta alla gastronomia e come la politica sta alla demagogia: in poche parole, come l'anima razionale sta all'oscurità del ventre. Il filosofo ghiottone è, quindi, quasi una contraddizione in termini, ed è tutta qui l'origine della cattiva fama che, nel Medioevo, dovette scontare Epicuro, semplicemente per essersi limitato ad affermare che "principio e radice di ogni bene è il piacere del ventre".
Fonte:Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
2 commenti:
Veramente molto interessante..fa riflettere su cose che ormai diamo per scontate e sono molto radicate nel nostro contesto culturale e società
veramente molto interessante!! fa riflettere su cose che ormai diamo per scontate e che invece sono molto radicate nel nostro contesto culturale e società
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