Benché Dante li sprofondi nel terzo cerchio dell'Inferno, prostrati nel fango e sferzati da una pioggia fetida mista d'acqua, grandine e neve, i golosi non paiono, agli occhi della sensibilità moderna, imputabili di una così grave mancanza. La golosità, da peccato capitale meritevole di eterna pena è divenuta, per gli uomini dell'inizio del terzo millennio, il condimento veniale di tutte le età della vita. Semmai, la "dannosa colpa della gola", come la chiamava l'Alighieri nella "Divina Commedia" non è più, al giorno d'oggi, un errore morale, quanto un'infrazione dell'ordine estetico. Agli imperativi etici delle società della fame e della penuria, la moderna civiltà dei consumi ha sostituito, da tempo, le prescrizioni, talvolta altrettanto ferree e vincolanti per le esigenze della moda e del pubblico apparire, della dietetica. Il pensiero medievale giudica la gola una forma particolare di intemperanza dei sensi. Se la lussuria è il peccato della carne inerente all'eccesso nella sfera sessuale, la golosità è il peccato della carne che riguarda l'eccesso nell'ambito alimentare. Si tratta di una colpa che avvilisce l'uomo alla condizione bestiale, appiattendolo a livello della semplice materia. A differenza del lussurioso, che ha bisogno del prossimo almeno come oggetto di piacere, il goloso sembra ignorare ogni altra umanità, concentrandosi egoisticamente sul referto di quei sensi - il tatto, l'odorato e, ovviamente, soprattutto il gusto - che lo mettono in relazione con il cibo.
Detto ciò, tuttavia, i moralisti del Medioevo si videro alle prese con una difficoltà aggiuntiva rispetto al caso esemplare della lussuria, contro la quale, forti dello stato celibatario di monaci e chierici, potevano sempre predicare la continenza. Al di là della pratica eccezionale del digiuno, nella sfera alimentare emerge, infatti, l'esigenza ineludibile di discernere, data la necessità fisiologica del nutrimento, fra bisogno e desiderio. Come scriveva Tommaso d'Aquino nella "Summa Teologica", "poiché al mangiare è connesso necessariamente il piacere, non si riesce a distinguere ciò che è richiesto dalla necessità da ciò che vi aggiunge il piacere". Nell'atto di mangiare, scrive san Tommaso, noi soddisfiamo due tipi di appetito, l'"appetito naturale", a cui appartengono le sensazioni primarie della fame e della sete e l'ambito fisiologico del bisogno, e l'"appetito sensitivo", che presiede al desiderio dei cibi e dei gusti, e i cui stravizi vanno a costituire il peccato della gola. La distinzione formulata da san Tommaso permette di separare le sorti del goloso da quelle dell'ingordo. Se l'ingordigia è l'eccesso quantitativo della fame e, quindi, l'insaziabilità dell'appetito naturale, la golosità ha a che fare, piuttosto, con l'affinamento qualitativo dei sensi. La gola non si appaga per la materialità del cibo, ma per l'esaltazione sfrenata delle sensazioni del palato che sfuggono al controllo e alla moderazione della ragione.
L'autore della "Summa Teologica" parrebbe incline a considerare la gola un peccato veniale, anche se le sue conseguenze possono essere mortali. È questa, invece, l'opinione di san Giovanni Crisostomo, che all'intemperanza del mangiare riconduce lo stesso peccato originale. Cosa fu, infatti, la colpa di Adamo, se non il desiderio di assaggiare un frutto, quello dell'albero della conoscenza del bene e del male, che Dio gli aveva proibito? Dunque, l'intemperanza alimentare può, per i suoi effetti secondari, trasformarsi nel più grave dei peccati. Prova ne è che, talvolta, essa viene punita da Dio con il castigo immediato della malattia, dal momento che la golosità spesso nuoce alla salute del corpo. Dalle remote pagine degli autori medievali emerge, anticipata nell'abbozzo di questa specie di giustizia immanente, la traduzione del peccato etico della gola nella colpa dietetica - medica ed estetica - dei moderni. Essere golosi è un modo di stare al mondo che si compone di godimenti, desideri, sensazioni, ma soprattutto di parole, rappresentazioni e fantasmi. Nella bocca cibo e parola, si diceva, s'incrociano in un complesso intrico di ordini simbolici, di echi e di rimandi. Come non dare ragione a Gisèle Harrus-Révidi quando, nella sua "Psicanalisi del goloso", ella rileva l'estrema elaborazione linguistica, la raffinata capacità descrittiva del "gourmet", l'inevitabile pratica della parola, la letterarietà intrinseca presupposta alla nascita della gastronomia. Il piacere del goloso, nota la Harrus-Révidi, è un piacere simbolico, che si sviluppa in due direzioni. La prima direzione, quella dell'arte culinaria sofisticata, è "estetica" e si esprime in termini di riflessione teorica e giudizio di valore sul livello di qualità del piacere del palato. È l'inclinazione del "gourmet" che, come scriveva Brillat-Savarin nella sua celebre "Fisiologia del gusto", permette di "cogliere il particolare sapore della coscia sulla quale la pernice si è appoggiata nel sonno". La seconda direzione è "affettiva" e riguarda quel gusto inimitabile, legato alla quotidianità e all'ordine dei rapporti affettivi, che Proust sintetizzava nel ricordo emblematico del dolce della "madeleine" e del suo profumo.
La figura del goloso ci permette così di individuare nel nesso fra il cibo e la parola, fra il piatto e la sua immagine fantasmatica, la nostalgia figurale di un rapporto diretto, di un contatto materno, immemoriale e originario, con il nutrimento e la sua rassicurazione. Dietro tutte le utopie sociali e politiche, dietro ogni terra promessa dove, non a caso, scorrono sempre latte e miele, c'è l'utopia alimentare di quell'identità assoluta e perfetta che ripristina l'unione con il seno materno, con il cibo tradizionale, con i buoni sapori genuini. La vocazione della filosofia ha, a ben vedere, molte tangenze con questa duplice declinazione, estetica e affettiva, della golosità quale ricerca di sublime autosufficienza e insieme di assoluta originarietà: di raffinato gioco linguistico e di scavo nell'ineffabilità dell'immemoriale. Anche quando è spinta verso ascetici e continenti propositi, la gola del filosofo continuerà a nutrirsi di cibi, seppure solo "in figuris", come nelle metafore del "pane della verità", delle "parole di latte", dell'"uovo cosmico", dell'"in vino veritas" e, vuoi anche, per gli amanti dei superalcolici, della fenomenologia dello "spirito". Allora, il pericolo sarà, semmai, come già aveva intuito Aristotele nell'"Etica nicomachea", che, per la prossimità della gola con la parola, il vizio si trasformi per contiguità, e la golosità del filosofo si traduca nell'ingordigia, ovvero nell'irrefrenabile loquacità del chiacchierone.
Fonte:"XÁOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006
2 commenti:
l''incredibile della filosofia, è ovunque, anche in un nostro singolo passo..un bacio speciale per la tua devozione..fata dell'oltre terra..
Alessandro
Non ho mai capito il perchè l'essere goloso sia un peccato...bisogna non eccedere si ma non si fa male a nessuno oltre che a se stessi
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