Aristotele distingue tra virtù intellettuali (dianoetiche) e virtù morali (nell'uso corrente è rimasta soltanto l'accezione morale del termine).
Virtù= capacità, capacità di agire bene (saper fare votato all'azione-produzione; comunanza con le arti). Si può conseguire solo agendo; prima seguendo determinati modelli e, via via, affinando la propria capacità di agire bene, fino a farla diventare interamente acquisita, come una nostra seconda natura (cfr. latino habitus). Il comportamento morale è kata ton logon (in accordo con logos), saper agire accordandoci al logos.
Problema: se agire bene è una capacità che può essere conseguita solo agendo, allora sembrerebbe che la virtù presupponga già l'essere virtuoso. La circolarità è soltanto apparente: poiché non si dà alcuna virtù astratta da mettere in pratica, solo nell'azione si può acquisire la capacità di agire bene.
In altre parole, nell'azione si apprende una capacità che, pur appartenendoci per natura (disposizione), tuttavia deve essere appresa, fatta propria (habitus, secondo natura).
Problema: Contrariamente a Platone, per Aristotele nell'etica non si dà alcunché di oggettivo, immutabile, ma si valuta soltanto ciò che è conveniente, opportuno, relativo alla situazione (altra affinità con le arti: non si danno regole assolute, ma necessità di rispondere in maniera adeguata alla situazione).
Se nulla è stabile, come possiamo delineare il bene e la vitù rispetto al logos?
La virtù viene, allora, definita come mesotes (medietà), media tra un eccesso e un difetto (ad esempio il coraggio è media tra temerarietà e codardia). Non è la media matematica (oggettiva), ma relativa alla situazione. Si acquisisce individuando ciò che è kata ton orthon logon (orthon=dritto; l'armonia giusta), l'azione che ha la giusta incidenza rispetto alla situazione. In questo senso l'azione non è di per sé giusta, ma dipende dal contesto; un'azione giusta in un contesto, può essere sbagliata in un altro.
Torna il modello organicistico - funzionalistico: nella ricerca del giusto mezzo non si valuta soltanto la situazione in sé, ma l'insieme delle situazioni e dei soggetti coinvolti in esse, l'insieme delle relazioni reciproche.
Differenza fondamentale:
- Aristotele: l'azione non definisce, bensì mostra, manifesta, fa emergere la virtù. La virtù risulta dall'azione, non è definita da essa.
- Kant: l'azione definisce la virtù. Definizione oggettiva di virtù, indipendente dalla situazione.
Per Kant si, sempre e in ogni situazione (cfr. Sul presunto diritto di mentire per amore dell'Umanità: all'assassino che cerca l'innocente nascosto in casa mia non posso mentire).
Per Aristotele solo riferendoci alla situazione possiamo valutare se sia opportuno mantenere la promessa o dire la verità (nota bene: non si tratta di alcun calcolo utilitaristico, ma di valutazione delle condizioni e del giusto mezzo).
In realtà la questione è più complessa: Kant per salvaguardare la Dignità dell'essere umano, distingue tra Person (persona) e Menscheit (Umanità). Cfr. seconda formulazione dell'imperativo categorico : "Agisci in modo da trattare l'Umanità nella tua persona così in te come negli altri sempre come fine, non mai solo come mezzo" (trad. mod.).
Della menzogna si deve rispondere dinanzi all'Umanità (presente anche nell'assassino), non dinanzi alla persona.
L'Umanità è principio assoluto, che acquista valore normativo (diventa una norma); in Aristotele, invece, non si dà alcun principio normativo astratto, ci si riferisce al soggetto concreto, non all'Umanità.
Ulteriore precisazione: Come Aristotele, anche Kant ammette che, se la situazione lo richiede, si possa usare l'essere umano come mezzo in vista di un fine; a condizione, tuttavia, che sia usato anche come mezzo, e non solo come mezzo.
Piacere: soddisfazione che si prova per la realizzazione di ciò a cui per natura tendiamo. La virtù è connessa al piacere (quindi, parallelamente, anche al dolore); la virtù non esclude il piacere, anzi esso è suo elemento costitutivo. Trasformando in habitus una disposizione naturale che ci è propria si unisce virtù e piacere.
Cfr. Rawls, che enuncia il "principio aristotelico":
Della menzogna si deve rispondere dinanzi all'Umanità (presente anche nell'assassino), non dinanzi alla persona.
L'Umanità è principio assoluto, che acquista valore normativo (diventa una norma); in Aristotele, invece, non si dà alcun principio normativo astratto, ci si riferisce al soggetto concreto, non all'Umanità.
Ulteriore precisazione: Come Aristotele, anche Kant ammette che, se la situazione lo richiede, si possa usare l'essere umano come mezzo in vista di un fine; a condizione, tuttavia, che sia usato anche come mezzo, e non solo come mezzo.
Piacere: soddisfazione che si prova per la realizzazione di ciò a cui per natura tendiamo. La virtù è connessa al piacere (quindi, parallelamente, anche al dolore); la virtù non esclude il piacere, anzi esso è suo elemento costitutivo. Trasformando in habitus una disposizione naturale che ci è propria si unisce virtù e piacere.
Cfr. Rawls, che enuncia il "principio aristotelico":
"a parità di condizioni gli esseri umani provano piacere nell'esercitare le loro capacità effettive (le loro doti innate o acquisite), e il loro piacere aumenta via via che la capacità si realizza o cresce la sua complessità. L'idea intuitiva qui esposta è che gli esseri umani provano maggior piacere nel fare una cosa quando aumenta la loro competenza nel farla, e di due attività che svolgono ugualmente bene essi preferiscono quella che si avvale di un più ampio repertorio di distinzioni più sottili e complesse"
J.Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2004, p.351.
Aristotele si riferisce a Eraclito: per un meccanismo interno all'azione, se essa si svolge in assenza di difficoltà, la sua realizzazione comporta minore soddisfazione; mentre proviamo maggior piacere nella realizzazione di un'azione più complessa. Quindi, il piacere non è soltanto ciò a cui tendere in maniera astratta, ma l'azione che rende reale ciò che ancora non lo è e che, tuttavia, è possibile; è rendere reale (realizzare) il massimo grado del possibile. La felicità diventa, quindi, una sfida, mettere alla prova la nostra capacità di realizzare qualcosa di complesso; felicità come raggiungimento dell'eccellenza (non si dà felicità come assenza di preoccupazioni).
Differenza tra etica e arte: arte mira soltanto alla produzione di qualcosa, ciò che conta è solo il risultato. Nell'etica considerare solo il risultato non basta: l'azione non deve essere soltanto compiuta, bensì anche meditata, scelta deliberatamente, assunta di per sé, e messa in relazione con la totalità della nostra vita (cfr. "una rondine non fa primavera"). Ciò significa che un'azione compiuta isolatamente (occasionalmente, fortuitamente, casualmente), anche se buona, non si inserisce nel logos, pertanto, in un certo senso, è un'azione che non mi è propria, non mi appartiene veramente. L'appartenenza è da intendersi nel senso di funzionalità (non in funzione di, ma in relazione con): ciò che faccio volontariamente, mi è proprio in quanto il mio volere è funzionale alle aspettative della realtà in cui sono collocato.
Es. del linguaggio: quando parliamo, entriamo in una lingua; traducendo in parole un'intuizione entriamo in un flusso linguistico dominato da leggi proprie (automatismi). Il linguaggio ha una propria costituzione ala quale io vengo ad appartenere. Si deve cercare la giusta misura di questa appartenenza: attingere all'universalità del linguaggio, esprimendo, però, attraverso di essa l'individualità del parlante.
Quando si è trovata la giusta misura, essa non può essere ulteriormente perfezionata, è già la migliore possibile. La misura ha in sé la sua propria misura.
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