Un filosofo al cinema
Un libro che interpreta il cinema alla ricerca di risposte alle questioni fondamentali dell'esistenza umana. Tanti esercizi di lettura, in cui cinema e filosofia instaurano un'interessante conversazione.
di Valeria Merola
Nel Preludio con cui apre il suo libro Un filosofo al cinema, Umberto Curi definisce l’assunto di partenza del proprio lavoro. L’idea di leggere il cinema del panorama internazionale degli ultimi anni, con gli strumenti offerti dalla riflessione filosofica, nasce dall’esigenza di riconoscere nei film di cui siamo spettatori delle possibili risposte a problemi fondamentali del vivere quotidiano.
Professore ordinario di Storia della Filosofia dell’Università di Padova, Curi sostiene che per apprezzare fino in fondo il valore di un film e godere veramente di esso si debba ascoltare quello che il film ci dice sulle grandi questioni della nostra esistenza. Non limitarsi dunque ad assistere ad una rappresentazione, ma confrontarsi con il film e dialogare con esso. Per descrivere il suo progetto, l’autore cita Deleuze, che afferma di aver iniziato a scrivere di cinema quando «dei problemi filosofici mi hanno spinto a cercare queste risposte nel cinema, anche se queste risposte mettevano sul tappeto altri problemi».
Ed è proprio su questi problemi che si concentra l’analisi di Curi. Il saggio si divide in sei parti, ognuna delle quali affronta una delle grandi domande su cui si è interrogata la filosofia. Si va dal tema dello straniero a quello del rapporto tra vita e morte, dal doppio alla meditazione sulla fragilità dell’esistenza umana, dalla violenza alla concezione del tempo. L’autore pone la questione, analizzandola con vari riferimenti alla storia della filosofia, per poi indagare le possibili risposte in una scelta di film, che offrono uno spettro ampio di soluzioni. Si instaura così un confronto dialettico, mirato a offrire una critica cinematografica che, per usare ancora le parole del Deleuze citato da Curi, non «si rinchiude nel cinema come in un ghetto», spingendosi anche oltre il valore artistico del film e la sua rilevanza nella storia del cinema.
Per osservare il tema dello Straniero che ci abita, e quindi del rapporto con l’altro, con il diverso e con l’identità, questione centrale nella tradizione del pensiero occidentale, Curi sceglie per esempio L’uomo del treno (2002). Il film di Patrice Leconte offre una rappresentazione della diversità, vissuta come possibilità di riconoscersi. L’incontro tra i due protagonisti, un bandito e un anziano professore di francese che vive solo in una dimora in decadenza, si rivela uno scambio di identità. L’incrociarsi dei loro percorsi esistenziali non altera la loro diversità, perché «l’uno finisce per occupare la “posizione” dell’altro».
Mentre il Million Dollar Baby di Clint Eastwood viene letto come rappresentazione dell’eros che si libera «da ogni identità circoscritta, mostrandone [...] l’incancellabile relazione con thanatos», Buongiorno notte di Marco Bellocchio è interpretato come «una vera e propria meditatio mortis», in cui la dimensione notturna allude all’incapacità di razionalizzare la tragedia.
Curi sceglie film che tematizzano i problemi da diverse angolazioni, come nel caso della Morfogenesi della violenza, introdotta con riferimento a René Girard, e analizzata grazie alla ricostruzione della violenza nelle metropoli americane di Gangs of New York (2001) di Martin Scorsese, o alla violenza come vendetta delCollateral (2004) di Michael Mann, o ancora alla banalità del male dipinta da Gus Van Sant in Elephant(2003).
Senza voler fare storia del cinema, né tantomeno proporre una teoria, Curi offre degli esercizi di lettura, una «perlustrazione nel vivo dei testi», nel tentativo «di renderne più compiutamente leggibile la filigrana concettuale».
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