" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Morte e Utopia: Simmel e Bloch a confronto

lunedì 2 maggio 2011

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Un lettore (Fabio Cirillo) del mio blog , mi ha chiesto se potevo pubblicargli un suo saggio breve di filosofia!
Dopo una nostra collaborazione per decidere quale titolo fornire all'articolo,finalmente è stato pubblicato!
Di seguito ve lo propongo integralmente!
Buona lettura!









Con questa relazione intendo discutere sul tema della morte secondo Simmel, 
opponendo ad esso la tesi dell’utopia secondo Ernst Bloch.
Bloch
Nelle 4 intuizioni della vita Simmel afferma, che è proprio la morte a dar 
forma alla vita. Questo in netta contrapposizione con la visione classica (si 
prenda ad esempio Epicuro, il quale affermava che non bisogna aver paura della 
morte dato che essa sussiste solo in condizioni opposte alla vita).La morte è 
fondamentale alla vita proprio perché le da forma delimitandola, una forma 
immanente che appartiene al soggetto (solo ed esclusivamente), sin dalla 
nascita.
Ogni evento (contenuto) assume il suo senso solo grazie alla forma in cui si 
inserisce, esso, al di fuori della forma, e al di fuori della dimensione in cui 
la forma è ubicata (l’immanenza) cioè nella trascendenza, sarebbe totalmente 
diverso:
il significato costitutivo della morte. In altre parole, essa delimita, o 
meglio, modella la nostra vita non solo nell’ora della morte, , bensì è un 
momento fondamentale della vita che ne tinge tutti i contenuti; il fatto che la 
totalità della vita sia delimitata dalla morte agisce preliminarmente su 
ciascuno dei suoi contenuti ed istanti; la qualità e la forma di essi sarebbe 
diversa se esso potesse estendersi oltre questo limite immanente.(le 4 
intuizioni della vita pag. 81)
la forma, secondo Simmel , è ineccepibilmente individuale, è un apriori innato 
ed irripetibile, diverso di soggetto in soggetto.
In pratica, l’opposto di quanto sosteneva Kant, ovvero, una ragione pura 
trascendentale e comune (quindi impersonale e sovra individuale) alla luce 
della quale, ogni individuo in maniera uguale (quindi comparabile), discerne il 
bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Una ragione alla quale si 
“disobbedirebbe” solo attraverso un prevaricare della sensibilità (tentazione) 
sul raziocinio, idea vile, dice Simmel, dato che sottrae l’uomo dalla 
responsabilità per il male che crea.
Avendo quindi parlato della forma sia secondo Kant che secondo Simmel, è ovvio 
chiedersi chi dei due “abbia ragione”, cioè, quale forma assuma la vita.
Simmel
Abbiamo visto che per Simmel la forma è delimitata dalla morte, condizione 
questa scaturita dall’immanenza dell’esser-ci. Ma al di fuori dell’immanenza, 
nella trascendenza, la vita ha un limite? Se non lo avesse ogni contenuto 
semplicemente non esisterebbe, dato che, una vita che non ha limite non ha 
nemmeno forma, e un contenuto, non avendo una forma in cui iscriversi, non 
esiste.
Ma se esistesse un evento che dia forma all’io trascendentale dall’interno?!
Questi sarebbe senz’altro l’utopia, il non-luogo, lo scopo, appunto il fine, 
dell’esistere!





Per descrive questo evento cito alcuni passi tratti da “ateismo nel 
cristianesimo” di Ernst Bloch:









fino ad ora non siamo mai usciti dal nostro io e continuiamo a restarvi. La 
tenebra ancora ci penetra e non solo perché sentiamo che il nostro qui e il 
nostro ora – in cui come tutto ci muoviamo – sono troppo prossimi ed immanenti 
[…] noi siamo incompiuti come nessun’altra esistenza vivente, ancora aperti 
verso l’avanti. E ci proiettiamo tutti in avanti, lavorando ed agendo per 
qualcosa ancora da venire (ateismo nel cristianesimo pag. 165)
e ancora:
per quanto sia opaca la nostra vita, tuttavia qualcosa ci da una spinta. La 
fame si annuncia con i suoi colpi … e si pone dunque di fronte alla questione 
su senso, senza placare la fame di senso ed il non-senso della morte mediante l’
oppio del popolo e nemmeno mediante i sogni di un accomodamento nell ’al dilà, ma 
con un lavoro incessante dell’incorruttibile e non deviato diventar coscienti e 
sulla autentica realizzazione del bisogno utopico (ateismo nel cristianesimo 
pag 323-324) 
se la vita è quindi delimitata dall’utopia, la morte dell’individuo non 
rappresenterà la morte della forma, l’umanità avrà inglobato l’individuo, il 
quale, con la sua vita e la sua morte non è sostituibile come una qualsiasi 
rana (l’esempio che porta Simmel): “l’essere grande” del soggetto non è sparito 
con la morte, è rimasto a disposizione dell’umanità e del suo progredire verso 
l’utopia:
l’orrore della morte supera l’angoscia dinnanzi al morire, l’angoscia nel 
momento di un distacco che avviene ancora in vita. Di una morte che non si può 
sperimentare nel proprio corpo, ma che è prima tanto più evidente nei cadaveri 
degli altri. […] per superare ciò occorre un coraggio diverso da quello 
necessario per vivere e per morire. […]il buono, il bello, il sublime ed il 
profondo, anche se spezzati ed agenti in una sfera rapita all’uomo, potrebbero 
rafforzare il nostro esser-ci terrestre, altrove tanto precario, il coraggio 
della morte, offrendogli l’affetto di una attesa che si volge anche a ciò che 
contro ogni aspettativa non si è verificato. […] solo laddove- come mai 
altrove- il cercare, l’attendere, lo stesso non capitolare trovano un posto, 
permanentemente meta religioso e per la prima volta anche meta-fisico. Una 
morte sicura va incontro solo a chi si limita a stare in superficie di tutto 
ciò. Il cadavere viene eliminato e rimosso, quasi spazzato via dalle onde; ma 
verso dove vanno i fiori? […] il nocciolo di tutti gli uomini è in ogni caso al 
di la dei confini del caudico, per tutto ciò che in esso ancora diviene. 
(ateismo nel cristianesimo pag. 314–322).
Ovviamente ogni soggetto crede in una utopia diversa, un cristiano non è 
(necessariamente) un comunista, e viceversa … ciò che conta non è “il 
contenuto” dell’utopia, a dar forma al pensiero comune è, già di per se, l’idea 
stessa dell’utopia, cioè un qualcosa che non è e che può essere, un fine che 
super l’individualismo (l’individuo e la sua morte) diventando progetto 
collettivo e comune dell’umanità.



C’è però da fare una precisazione: 
l’utopia, così come la ragion pura, non sono insite nell’uomo, insita è semmai 
la forma individuale (coerente con l’immanenza dell’esistenza), per dirlo in 
maniera Heideggeriana l’utopia non è nell’esser-ci!
Certamente ognuno, sulla propria isola, nella propria individualità, può 
credere di compiere un qualcosa di trascendentale, di storicamente rilevante, 
invece, così come afferma anche Nietzsche in un tratto della seconda inattuale, 
egli asseconda solo una esigenza del suo spirito dionisiaco.
Se non è quindi possibile pensare all’utopia nell’esser-ci, è almeno possibile 
uscire da questi? È possibile aprire una crepa nello spazio immanente per 
guardare oltre?




Emmanuel Levinas, certamente un filosofo etico e politico più che teoretico, 
proprio in contrapposizione all’esser-ci dell’ente di Heidegger, parlò di un 
“altrimenti che essere”, un’altra dimensione del pensare ove non ci sia 
violenta riduzione “dell’altro al medesimo”.
A questa nuova dimensione del pensiero si “accede” con la paralisi provocata 
dal darsi del volto dell’altro(il povero, il viandante, la vedova. Immagini che 
Levinas prende dalla Thorà), una paralisi che fa del soggetto un “ostaggio” 
dell’altro, non più un esser-ci, ma un ecco-mi:
accesso caratteristico in cui colui che accede appartiene egli stesso alla 
concretezza dell’incontro senza poter prendere la distanza necessaria allo 
sguardo oggettivante, senza potersi liberare dalla relazione […] trascendenza 
che non sarebbe quindi la semplice deficienza di immanenza, ma l’eccellenza 
irriducibile del sociale nella sua prossimità, la pace stessa. Non la pace 
della sicurezza e della non aggressione, che assicura a ciascuno la sua 
posizione nell’essere, ma la pace che è già questa non-in-differneza . (tra di 
noi. Saggi sul pensare-all’altro pag.228)







il soggetto Levinasiano, “torna” poi al suo esser-ci, attraverso la comparsa 
di “un altro prossimo” (un terzo)… ma il soggetto vivrà in un'altra forma, 
quella che Levinas definisce “giusta”. In pratica vivrà con giustizia, 
scaturita dalla intelligibilità ottenuta con l’uscita dal suo spazio 
esistenziale:
la giustizia consiste nel rendere nuovamente possibile l’espressione in cui, 
nella non-reciprocità, la persona si presenta nella sua unicità. 
Osservando quindi questo meccanismo etico ipotizzato da Levinas, è concepibile 
pensare che il darsi dell’utopia ci porti nella stessa maniera, ad una nuova 
visione ontologica, ad una nuova forma, non più individuale e immanente, ma 
universale e trascendentale, non più limitata dalla morte, bensì dalla 
utopia.
                      (Fabio Cirillo) 

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