" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Fedone (ebook free)

martedì 26 luglio 2011

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La cornice narrativa



Il Fedone comincia con un dialogo svoltosi tra chi dà il nome all'opera, uno dei più grandi discepoli di Socrate, ed Echecrate, personaggio di cui viene detto poco, se non che è originario di Fliunte, dove Fedone appunto sembra trovarsi di passaggio. Platone non fornisce elementi precisi per la datazione dell'incontro, che, come sempre, è descritto come realmente avvenuto. Pare però che sia trascorso poco tempo dalla morte di Socrate: Echecrate lamenta che la notizia è giunta si a Fliunte, ma che non se ne conoscono ancora i particolari. Si tratta dunque di un incontro, per quanto fittizio, che Platone immagina di narrare a molti anni di distanza.
Fedone era stato catturato ad Elide come preda di guerra durante il conflitto tra Atene e Sparta. Giovane di straordinaria bellezza, fu venduto come schiavo ad Atene. Riscattato su suggerimento di Socrate, né diventò discepolo.
Dobbiamo dedurre che tornò in patria ad Elide dopo l'esecuzione del suo maestro: Fliunte si trova sulla strada per Elide.
Perché Platone sceglie Echecrate come interlocutore di Fedone? Era necessaria una così breve cornice narrativa in un dialogo che presto diventa una narrazione continua e quasi ininterrotta di Fedone con Socrate come protagonista? E' ovvio ricordare che la struttura dialogica è per Platone non solo un espediente letterario, ma soprattutto una forma del pensiero. Probabilmente, poi, Echecrate era un esponente della scuola pitagorica di Fliunte, e non è un caso che Platone lo scelga come personaggio di un dialogo che tocca temi cari a Pitagora: l'immortalità dell'anima e la reincarnazione. Del resto, anche Simmia e Cebete, i due principali interlocutori di Socrate, hanno frequentato il pitagorico Filolao.




La teoria delle forme


La teoria delle "forme" ( o delle idee) rappresenta per così dire il presupposto del Fedone. Il termine adoperato da Platone nel dialogo è éidos, forma, immagine (in altri dialoghi si trova invece idéa), e si riferisce ad ogni ente "in sé", che è solo se stesso e nient'altro. Socrate cita, tra l'altro, l'uguale in sé, concetto che non si può ridurre ad un particolare esempio di uguaglianza o di somiglianza tra due oggetti sensibili.
Gli altri interlocutori del dialogo trovano familiare questo tipo di argomentazione, che Socrate stesso sembra quasi dare per scontata di fronte a chi conosce la sua dottrina. Ma tipicamente platonico è il grado superiore di esistenza che queste realtà sembrano avere, e soprattutto l'enfasi sul fatto che le forme, o realtà in sé, esistano separatamente dal molteplice: le forme non servono soltanto per ricondurre il molteplice ad un'unità, sono oggetti superiori preesistenti, che l'uomo può conoscere soltanto in uno stato disincarnato, ed essere "ricordati" nel momento del confronto con gli oggetti sensibili. Le forme devono necessariamente essere semplici, immutabili, eterne, e partecipi del divino.



L'anima e l'immortalità


Il termine greco che nel Fedone perlopiù traduciamo con "anima" è psyché. Per un greco dell'età di Platone, al di fuori della terminologia tecnica filosofica, può semplicemente indicare la vita, il soffio vitale che anima il corpo, la sede della coscienza. Un'altra tradizione, già presente in Omero, prevede che l'anima sia una specie di traccia incorporea che rimane, nell'Ade, dopo la morte di un uomo: visibile e riconoscibile come individualità, capace di parlare e di prevedere il futuro se interrogata o costretta da formule magiche, ma impotente e passiva, è poco più di un'ombra, un fantasma. Platone parte da questa tradizione ma ne prende decisamente le distanze sottolineando che l'anima di cui parla è tutt'altro che umbratile ed impotente: essa possiede "forza e intelligenza".
Gli argomenti che Socrate cita a favore della tesi dell'immortalità dell'anima sono essenzialmente tre:
  • la reminiscenza: poiché la conoscenza non si può sufficientemente spiegare come induzione dalla molteplicità dei fenomeni sensibili essa deve di necessità derivare da nozioni che precedono la nascita e l'incarnazione dell'anima nel corpo;
  • la differenza tra anima e corpo: l'anima assomiglia alle forme e pertanto è, come quelle, semplice, immortale e partecipe del divino;
  • l'esclusione dei contrari: l'anima, che contiene l0idea di vita, non può accogliere l'idea di morte.


Ci si può chiedere fino a che punto siffatti argomenti rimandassero al genuino insegnamento socratico. Nell'Apologia, opera giovanile giustamente ritenuta vicina al socratismo originario, Socrate espone una posizione completamente diversa: pur soffermandosi molto sulla suggestiva ipotesi dei Campi Elisi e di un aldilà felice, egli pone sullo stesso piano di probabilità l'idea della morte come fine assoluta dell'essere umano, e definisce il morto come colui che non è più nulla e non possiede percezione di nulla. Tanto scetticismo si concilia a fatica con gli argomenti esposti nel Fedone.
Platone sembra dunque distaccarsi dal suo maestro per seguire un'altra direzione. Già dal primo viaggio in Sicilia a Magna Grecia, la terra di Pitagora, Platone dimostra un profondo interesse per la filosofia pitagorica, che può fornirgli alcuni spunti interessanti nel suo cammino evolutivo partito dal socratismo.
Del peso che sembra assumere la filosofia di Pitagora in tutto il dialogo abbiamo già detto: si aggiunga qui che Socrate si preoccupa di confutare apertamente la concezione neo-pitagorica dell'anima come armonia. Possiamo forse intendere il Fedone come testimonianza cruciale e quasi programmatica di come Platone abbia utilizzato spunti del pensiero pitagorico per superare il socratismo ed integrarli, profondamente mutati, nella propria personale concezione. L'anima del filosofo, vuole dimostrarci Platone, interamente dedita alla conoscenza, attinge una sfera superiore della realtà e si libera dalla catena delle reincarnazioni per raggiungere gli dèi: per questo motivo egli si sofferma sulla sua immortalità e sul suo aspetto divino.


Le dottrine non scritte


Il personaggio di Socrate nel Fedone si presenta con un'ambiguità tipicamente platonica: ha scoperto la verità e vuole rivelarla per via dialettica oppure la sta egli stesso cercando? Socrate ammette che anche l'ultimo argomento a favore della tesi dell'immortalità dell'anima, quello a proposito del quale nutre il massimo ottimismo, è basato su ipotesi che sono ben lungi dall'essere state trattate completamente, e aggiunge che alla speculazione umana è lecito giungere solo fino ad un certo punto. E, del resto, subito dopo, il dialogo lascia la speculazione logica per il mito, concludendosi nel segno della religiosità. Inoltre, quando Platone torna sul problema dell'immortalità dell'anima in altre opere (Repubblica, Fedro, Leggi), i suoi argomenti sono completamente diversi.
Cosa nasconde, dunque, al di là della finzione letteraria, il prudente silenzio di Socrate nel Fedone? E' possibile che Platone sapesse di avvicinarsi ad un territorio troppo lontano dalla genuina tradizione socratica e che, con una specie di preoccupazione storiografica, non osasse mettere in bocca a Socrate le proprie personali speculazioni proprio in un contesto così significativo e pregnante quale quello del Fedone, ossia gli ultimi, solenni istanti di vita del suo maestro. 
Oppure dobbiamo intravvedere in questa scelta rinunciataria un rimando, per pochi eletti, al Platone esoterico, quello delle dottrine non scritte che non potevano essere divulgate in un dialogo destinato alla pubblicazione?
Nella Lettera VII, della quale sembra ormai accertata l'originalità, l'anziano Platone afferma di non aver messi mai per iscritto la propria vera dottrina. Su certe cose, ci informa Platone, non esiste un suo scritto né mai esisterà: la loro conoscenza non è comunicabile come ogni altra conoscenza, ma si rivela improvvisamente dopo molte discussioni e dopo una lunga comunanza di vita, come luce che nasce dall'anima e che da essa si alimenta.
Aristotele, che fu discepolo di Platone all'Accademia, fa riferimento a dottrine non scritte che il filosofo avrebbe insegnato oralmente alla cerchia ristretta di suoi discepoli. Di queste dottrine, sulle quali la critica recente si è forse anche troppo soffermata, sappiamo ben poco,e  soprattutto ignoriamo lo stadio del loro sviluppo negli anni in cui fu composto il Fedone. E' possibile che esse vadano interpretate come lo sviluppo estremo del pensiero platonico piuttosto che come un filone parallelo a quello dei grandi capolavori pubblicati. 
La Lettera VII, del resto, è probabilmente uno degli ultimi scritti di Platone: non ci si dovrebbe stupire se in essa fosse considerata come una "vera dottrina" soltanto la fase più recente del pensiero platonico, di decenni posteriore alla pubblicazione dei grandi dialoghi.
Possiamo dunque considerare il Fedone, e lo stesso può valere per altri grandi dialoghi, non tanto come una versione semplificata per "non addetti ai lavori", ma piuttosto come la genuina rappresentazione di una fase del pensiero platonico, di un momento cruciale del suo sviluppo. Il Socrate del dialogo adombrerebbe la posizione di Platone, ormai sufficientemente certo delle sue  convinzioni, ma impegnato a costruire gli argomenti di cui necessita per sostenerle ed integrarle in un sistema di più ampio respiro.

3 commenti:

Luca Leli ha detto...

la poesia e la filosofia: il rapporto fra la poesia e la filosofia è spesso visto come antitetico, ma , questo è il frutto di un errato convincimento, che confonde i linguaggi con gli oggetti: la filosofia, e la poesia pur seguendo strade differenti, hanno la stessa meta, l'universale. La filosofia cerca di interpretare la realtà in se e nel modo in cui appare, facendo riferimento ad un linguaggio esplicativo, traducendo formule scientifiche e intuizioni, in un linguaggio comprensibile, ed esponendo in modelli teorici, punti di vista; la poesia ,invece, cogli la realtà, intuendola, e concentrando l'immagine di essa, cosi come colta, in una sintesi, in una goccia, in cui è esposta la realtà, cosi come interpretata, spesso anche in un emozione, che parla del sentire del poeta, oggettivabile tramite, la comunione della intuizione che lo ha portato a cogliere la realtà, in quel momento in quel modo,

Luca Leli ha detto...

siamo il frutto del nostro volere: questo è essere liberi nella mete; siamo il frutto del nostro sentire: questo è liberi nel nostro cuore

Luca Leli ha detto...

quando da bambino ci si guarda attorno, si vede un mondo che chiede di essere compreso, i cui l'immaginazione, i nnostro mondo interiore, si diffonde , le due realtà, le nostre, giocano fra loro, con schizzi di illusioni che diventano realtà e schizzi di realtà che diventano illusioni, c'è chi escce dal gioco, c'è chi ci rimane

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