" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Poetica (Aristotele)

giovedì 11 agosto 2011

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Le scienze poietiche (o arti) per Aristotele insegnano a produrre cose o strumenti secondo conoscenze determinate.
Esse possono o fare cose che la natura non sa fare, oppure imitare la natura stessa in alcuni suoi aspetti, con mezzi diversi, per fini che trascendono la mera utilità.
Fra di esse vi è la poesia, oggetto del trattato. L'unico libro rimasto si occupa della poesia tragica e dell'epica; probabilmente un secondo, perduto, doveva trattare della commedia.
Dal momento che essenza dell'opera poetica è l'imitazione (mìmesis), essa non necessariamente richiede i versi ( cap. I): ci sono opere poetiche prive di metro ( i dialoghi socratici) e opere dotate di metrica che non possono dirsi poetiche ( i poemi di Empedocle).
Quanto ai mezzi o materiali della mimesi (cap. II), tragedia e commedia si servono di ritmo, discorso, armonia, variamente mescolati.

Quanto all'oggetto dell'imitazione (cap. III), la tragedia riguarda uomini migliori, la commedia peggiori: ciò senza perdere di vista comunque il principio della somiglianza ( il carattere etico medio), affinché gli spettatori possano riconoscersi nelle rappresentazioni.
Infine, in quanto al modo, tragedia e commedia si servono della forma drammatica e non narrativa. L'istinto naturale all'imitazione, all'armonia e al ritmo, presente in tutti gli uomini, ha segnato la genesi e il decorso storico della poesia (capp. IV-V), mentre la lode e il biasimo sociale hanno dato origine alla distinzione fra lo stile elevato e lo stile umile, l'esametro e il giambo.
Omero ha saputo servirsi di tutti gli stili. Propriamente, però, tragedia e commedia nascono secondo Aristotele da canti corali associati al culto di Dioniso (ditirambo e falloforie).
Con lo staccarsi del corifeo dal resto del coro nasce il ruolo del primo attore, cui Eschilo ne avrebbe aggiunto un secondo e Sofocle un terzo: in questa vicenda avrebbe così acquisito sempre maggiore importanza il parlato rispetto alla musica e alla danza.
Secondo la celebre definizione (cap. VI), la tragedia è "imitazione di una azione nobile e compiuta, avente grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono e non tramite narrazione, la quale per mezzo della pietà (éleos) e del terrore ( phòbos) finisce con l'effettuare la purificazione (kàtharsis) di cosiffatte passioni". Tale "catarsi" non va intesa in senso morale né in una mera accezione fisiologica, ma è ciò che permette allo spettatore una contemplazione empatica e filantropica, eppure psicologicamente distaccata quanto basta, dell'evento scenico.

Le parti essenziali della tragedia, in ordine d'importanza, sono dunque: racconto, caratteri, pensiero, elocuzione, musica, spettacolo. Il mythos (intreccio, racconto) deve essere un tutto compiuto (capp. VII-VIII), come un organismo vivente; i suoi nessi debbono risultare non casuali, ma necessari o verosimili (tali cioè da prodursi sempre o per lo più).
In questo senso la mimesis tragica non è meramente produttiva. Vero è che lo storico, come il poeta, racconta fatti, ma si limita a registrarli nella loro particolarità; il poeta invece deve "fare" il discorso in modo tale che ciò che esso contiene risulti verisimile: "lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l'uno in prosa l'altro in versi (...), ma (...) l'uno dice le cose accadute e l'altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell'universale, mentre la storia del particolare".

Un intreccio complesso contiene in sé la sequenza peripezia, riconoscimento, sciagura (cap. X): ma tali elementi debbono conseguire logicamente lo sviluppo delle azioni. In questo senso, l'Edipo re di Sofocle (cap. XI) è la tragedia perfetta, perché li peripezia e riconoscimento  coincidono. 
Riguardo alla divisione quantitativa della tragedia (cap. XII), fra le parti non cantate  Aristotele enumera prologo, episodi ed esodo; fra quelle cantate, il parodo e gli stasimi del coro.

Nei capitoli successivi (capp. XIII-XVIII) tratta della vicenda e dell'effetto tragici, del riconoscimento e dei caratteri: tutti elementi che debbono essere prodotti dalla composizione dell'intreccio. 
A partire dal cap. XX Aristotele procede invece a una rapida trattazione linguistica e stilistica a livello fonetico (valori ritmico-musicali del linguaggio poetico) e semantico (nome, verbo, flessione, frase); quindi tratta del linguaggio poetico (capp. XXI-XXII) e della metafora, definita come traslato che si verifica all'interno dello stesso genere, o di due generi diversi, grazie alla capacità di cogliere elementi comuni.

I capitolo conclusivi (capp. XXIII-XXVI) sono dedicati, oltre ai criteri di lettura e di giudizio delle opere poetiche, alle differenze fra tragedia ed epopea. Quest'ultima si serve dell'esametro ed è più libera sia nella lunghezza sia nei modi della narrazione; ma la tragedia le è superiore, perché sa condensare i propri contenuti più del poema epico, e inoltre prevede anche la musica: in tal modo, può suscitare meglio il fine peculiare dell'arte, che è prettamente imitativo.

Se nel medioevo (nonostante la traduzione di Guglielmo di Moerbeke, 1278) la ricezione della Poetica fu ridotta, legata sostanzialmente alla limitata diffusione della parafrasi araba di Averroé, la sua fortuna incominciò in età umanistica con la traduzione di G. Valla (1458), seguita da diverse altre traduzioni e da innumerevoli commenti (quello del Robortello è del 1548).
Di qui prese avvio il vastissimo dibattito, che ha attraversato l'intera età moderna, intorno alle presunte radici aristoteliche della precettistica poetica (in particolare, le tre unità di tempo, luogo e azione).

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