Fin dall'inizio emerge nell'etica la profonda unità dell'aspetto teorico e di quello pratico. Nella questione del bene ne va tanto dell'azione (praxis), quanto della scelta (prohairesis), di compierla; tanto dell'arte (techne) intesa come produzione, quanto del metodo (methodos) per esercitare l'arte.
"Il bene è ciò a cui tutto tende". Aristotele è ironico quando dice che questa è la definizione che comunemente si dà al bene; infatti Platone non lo definisce in questo modo, ma come kalonagathon (unione di bellezza e di bene), cioè come armonia, bellezza buona di origine divina. Quella di Platone è una definizione oggettiva di bene. Invece in Aristotele non si dà alcuna definizione del bene in sé, ma esso è definito sempre in relazione alla situazione concreta della vita; la domanda sul bene è sempre connessa ai nostri desideri, alle nostre aspirazioni e ai nostri bisogni.
Sulla base di questa differenziazione si possono individuare due semantiche morali:
- l'imperativo morale (il dovere) con i concetti di legge e giustizia
- il desiderio (il volere), che tiene conto delle nostre aspirazioni, pulsioni e bisogni.
Il concetto aristotelico di bene si inserisce in questa seconda semantica morale. Il bene non è un principio assoluto, già dato in partenza a cui l'uomo deve commisurarsi, ma è ciò che deriva dalla nostra condotta nella situazione concreta, ciò che emerge naturalmente dalla vita.
La questione dell'etica non riguarda il dovere, il dover essere, ma ciò che è bene volere.(bene è diverso da giusto. Cfr Kant, rientrando nella semantica dell'imperativo, parla di giusto, di legislazione, non di bene).
Logos: non principio o ragione, ma occorre recuperare il significato di proporzione, armonia, ordine (cfr. latino ratio). Il bene non è tutto ciò a cui noi tendiamo, ma è il fine che unifica in maniera migliore, cioè che armonizza, i nostri desideri e bisogni. Saggezza (phronesis)= capacità di armonizzare.
Importanza dell'attività pratica. Nella questione del bene non si può prescindere dal valutare l'appropriatezza dell'azione rispetto alla situazione; bene= sapere come agire bene. E' importante, quindi, conoscere il contesto dell'azione, anche facendo riferimento ad altri saperi; in questo senso l'etica ha comunanza con le arti (arte=techne), è una scienza pratica, cioè una produzione che richiede conoscenza; agire bene è una competenza, non un sapere previo, ma una conoscenza che si acquisisce solo agendo.
Virtù (areté): capacità di trovare il giusto mezzo per raggiungere il fine. Il mezzo non è tale solo in senso strumentale, ma ci permette di realizzare, e quindi di comprendere, il fine. Il bene diventa l'unione di azione appropriata e fine buono. L'etica dell'imperativo non considera i mezzi, ma solo i fini, Aristotele, invece, connette mezzi e fini.
Quale criterio per giudicare il fine buono? Esistono fini in sé e fini che sono mezzi per altri fini. Essere fine in sé però non è criterio sufficiente per giudicare la bontà del fine (esistono fini in sé che tuttavia non sono fini alti).
Allora Aristotele distingue tra ciò che è bene per il singolo e ciò che è bene per lo Stato. Si tratta di una differenza non quantitativa, ma qualitativa: lo Stato è superiore al singolo perché è autosufficiente (autarkeia=non avere bisogno di altri, è diverso da autonomia=autolegislazione).
Il singolo non è autosufficiente, la relazione gli è essenziale. Lo stato è il bene più alto perché, in quanto autosufficiente, può garantire il benessere, l'armonizzazione di ogni singolo cittadino (cittadini però non sono gli schiavi, le donne e i bambini, anche se verso di essi è possibile il legame di amicizia- philia).
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