" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

martedì 15 marzo 2011

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Gli errori di... 


Kant 
Fichte 




Anche Kant ha commesso degli errori, anche se probabilmente più ingenui e meno grossolani rispetto a quelli di Cartesio. Il primo che esaminiamo risiede in quelle che Kant definisce forme a priori della sensibilità , ovvero lo spazio e il tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno , il tempo quella del senso interno. Spazio e tempo non sono dunque né rappresentazioni astratte dall' esperienza, né concetti costruiti discorsivamente dall' intelletto, ma intuizioni pure, le quali costituiscono le condizioni a priori di qualsiasi rappresentazione sensibile e quindi sono precedenti ad ogni esperienza possibile. In altri termini, tutto ciò che è dato nell'intuizione, viene necessariamente rappresentato nello spazio e nel tempo. A causa di questo processo di spazializzazione e di temporalizzazione noi non conosciamo gli oggetti come essi sono in sé, ma soltanto come ci appaiono , ovvero come fenomeni. Più precisamente, lo spazio è l' intuizione pura dei fenomeni del senso esterno, il tempo è l' intuizione pura dei fenomeni del senso interno. In parole povere, Kant dice che lo spazio e il tempo non appartengono alle cose come esse sono in sè (noumenicamente), bensì appartengono alle cose così come esse ci appaiono (fenomenicamente), quasi come se avessimo davanti agli occhi delle lenti amovibili che ci impediscono di vedere le cose come sono per davvero, ma ce le fanno vedere inevitabilmente sotto colorazioni che non appartengono alle cose in sè. Tuttavia Kant, che tende sempre a dimostrare rigorosamente ogni cosa, non dimostra che lo spazio e il tempo non appartengono alle cose in sè, ma lo accetta passivamente, quasi come un postulato. Non c'è nulla, del resto, che mi obblighi a negare che lo spazio e il tempo appartengano alle cose come sono in sè, o se anche c'è, Kant non l'ha dimostrato. Voglio dire, se sugli occhi abbiamo delle lenti verdi, è ovvio che ogni cosa ci apparirà colorata di verde anche se in realtà non lo è, ma tuttavia, quando vediamo una pianta o un prato, li vediamo verdi perchè abbiamo le lenti, ma se anche non le avessimo li vedremmo allo stesso modo, poichè sono verdi in sè.
Non c'è dunque nulla che mi vieti di ammettere che lo spazio e il tempo appartengano alle cose come sono in sè, e non alle cose come ci appaiono. Un altro grande errore commesso da Kant risiede nella cosa in sè , quell'entità misteriosa e inconoscibile da cui deriva il materiale dell'esperienza che il soggetto conosce. Kant ha affermato che si può avere conoscenza solo dove vi è un'associazione di materiale empirico all'attività categoriale, dove cioè l'intelletto lavora e riorganizza materiale ricevuto dall'esperienza sensibile. La categoria di causalità sarà, pertanto, applicabile legittimamente solo in ambito empirico, quando ad esempio, dopo aver visto il fumo, dirò che è stato causato dal fuoco; eppure Kant ha fatto un uso meta-empirico della categoria di causalità, applicandola alla cosa in sè: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta frutto della cosa in sè , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sè come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un qualcosa che causa, in maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sè modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell'esperienza, vuol dire che la cosa in sè agisce causalmente su di noi.
Il paradosso (già colto dal filosofo Enesidemo, pseudonimo di Schulze) è che la cosa in sè resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l'intero processo conoscitivo nella Critica della ragion pura . Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano dati dell'esperienza con l'intelletto, con la conseguenza che dove non c'è esperienza non c'è conoscenza; tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto, riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l'apporto della sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili! 
Il grande errore di Fichte affiora quand'egli, ormai surclassato dall'astro nascente di Schelling, si rifugia nella religione ed elabora la Filosofia dell'Assoluto. Dopo aver negato l'esistenza della cosa in sè kantiana con la conseguenza che è il soggetto a crearsi quel mondo che vede a sè contrapposto, Fichte ha anche asserito che l'Io, l'attore del processo, dopo aver posto il non-Io (il mondo) per poter esprimere tutta la propria potenza confrontandosi con degli ostacoli che esso stesso si è posto, è uno slancio infinito. Ora però, con lo slittamento verso la deriva religiosa, Fichte si rende conto che è assurdo parlare di uno "slancio infinito" se non si ammette un essere infinito, poichè uno slancio è per davvero infinito se tende verso una realtà infinita: Dio. Tuttavia, con l'ammissione di una sostanza autonoma (Dio) che sta a fondamento dello slancio infinito dell'Io, Fichte fa un passo falso e cade in contraddizione, reintroducendo una cosa in sè (Dio appunto) e mettendo in crisi il suo sistema filosofico, basato interamente sull'inesistenza di cose in sè e sul libero atto dell'Io. 

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