" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Il mio nuovo sito di filosofia

giovedì 12 aprile 2012

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Invito tutti voi a visitare il mio nuovo sito di filosofia all'interno del quale sono presenti:
storia della filosofia, vita dei filosofi, ebook da scaricare gratuitamente, saggi brevi filosofici e tanto altro ancora.


www.isentieridellaragione.weebly.com 

I politici di oggi? Imparino da Plutarco

sabato 7 aprile 2012

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I politici di oggi? Imparino da Plutarco a non nascondere la loro vita privata.


Per capire le logiche che presiedono al pensiero politico dell'Antichità e, quindi, per intendere quanto la politica contasse nella vita degli uomini delle democrazie di allora - per non parlare nei regimi di monarchia assoluta successivi, abbattuti, infine dalle rivoluzioni liberali del Seicento e del Settecento - bisogna operare una netta distinzione, parafrasando il celebre saggio di Benjamin Constant, fra "la libertà  degli antichi e dei moderni".
 Nella Grecia di Plutarco la politica era parte integrante, e imprescindibile, della vita privata di ogni cittadino; che non godeva, perciò, di una propria sfera autonoma rispetto a quella pubblica. Il cittadino, in quanto tale, era, al tempo stesso, soggetto e oggetto della politica perché politica e vita privata coincidevano e si sovrapponevano indissolubilmente.
La libertà degli antichi si identificava col diritto-dovere di partecipazione alla vita pubblica della polis di appartenenza alla quale, peraltro, potevano accedere, con pieno titolo di cittadinanza, solo i maschi e dalla quale erano, pertanto, esclusi gli schiavi e le donne.

"In qualunque carica uno entri comandi, ma sei a tua volta comandato".

Nella Grecia soggetta alla dominazione romana, al tradizionale, e politico, diritto-dovere di partecipazione alla vita pubblica, si aggiungeva, così, il dovere di rispondere ai proconsoli, ai luogotenenti di Cesare, in una condizione tipica delle condizioni in cui erano i popoli soggetti a Roma. Esattamente come, molti secoli dopo, sarebbe accaduto ai notabili locali delle (moderne) comunità sette-ottocentesche sulle quali esercitavano il loro controllo le potenze coloniali.






La libertà dei moderni riconosce, invece, al cittadino un ambito privato all'interno del quale egli opera le proprie scelte in perfetta e totale autonomia e indipendenza rispetto alla partecipazione, per quanto civilmente e persino moralmente auspicata, alla sfera pubblica, in definitiva all'impegno politico.
Nessuno, nelle contemporanee democrazie liberali, è obbligato, dalla legge o dalla consuetudine, e neppure è moralmente tenuto, a partecipare alla vita pubblica dello Stato di cui è cittadino.
Fra le libertà dei moderni c'è (anche) quella di ciascun individuo di non fare politica, e il diritto, conseguente, di occuparsi degli affari propri senza interferenze e condizionamenti che derivino a chi, invece, fa politica. Il principio di cittadinanza implica il godimento di libertà e diritti soggettivi, sanciti, riconosciuti e tutelati dall'Ordinamento giuridico statuale, nonché alcune conseguenze di natura politica, ma alla cui osservanza è attribuito un carattere fondamentalmente "passivo", quale è l'eleggibilità  a cariche pubbliche, e che non hanno affatto una natura prescrittiva.


I calzari dei romani





I Consigli politici di Plutarco a Menemaco, vanno letti, dunque, in questa chiave, cioè nella (loro) doppia veste: di trattatello propedeutico per chi si appresta ad avere formalmente responsabilità proprie dell'uomo politico, e di indirizzo etico- politico per chi si trova nella doppia veste pubblica e privata di semplice cittadino. Sono consigli che, per quanto riguardano Menemaco, nella sua specifica funzione di uomo politico a tutti gli effetti, attengono, innanzi tutto, ai rapporti di forza, nell'espletamento delle sue funzioni interne, locali, fra sé e i "calzari dei romani", il dominio esterno, della potenza imperiale e colonizzatrice. Sono, altresì e al tempo stesso, precetti che riguardano, in secondo luogo, ma non secondariamente, Menemaco, in quanto cittadino greco nella sua generica veste (anche) di partecipe della vita pubblica della propria polis.
E', del resto, grazie a questa duplice funzione, che i "consigli" finiscono con assumere la natura di un piccolo trattato- diremmo noi, oggi, di "formazione politica"e, parimenti, di "educazione civica"- che ha un carattere universale. Non stupisce, pertanto, che a fondamento sia della parte cosiddetta di "formazione politica", sia di quella di cosiddetta "educazione civica", peraltro non facilmente distinguibili e separabili, Plutarco ponga, quale filo conduttore nello sviluppo della sua intera teorizzazione, due particolari doti che si ritroveranno puntualmente anche negli scritti di teoria politica e civile rinascimentali, a educazione del Principe: la moderazione e la prudenza.





Giudizio e ragione


Moderazione e prudenza, sottolinea Plutarco, sono, a loro volta, la risultante della prevalenza della ragione- tema che farà capolinea negli scritti degli Illuministi francesi del Settecento-sulle passioni.
"Anzitutto", egli scrive, "sia stabilita per l'attività politica come base sicura e stabile la scelta che trae il suo principio sul giudizio e sulla ragione e non un fuoco di paglia dettato da vanogloria o amore di contesa o per mancanza di altre attività".
Solo poche righe prima, definisce il politico "uno che sa dire parole e portare a termine i fatti", perché non ha tempo "di considerare la maniera di vita  un filosofo, distinguendo, così in nuce, teoria empirica (propria del politico "che fa") e teoria filosofica della conoscenza (del filosofo, che "filosofeggia"), ciò che la moderna Scienza politica farà molti secoli dopo.
Profetiche appaiono, infine le parole sulla moralità privata dell'uomo politico: "Quelli che si occupano di politica non solo debbono dare conto di quello che dicono e fanno in pubblico, ma si indaga anche con curiosità sul loro banchetto, sugli amori, sul matrimonio, su quanto fanno di scherzoso e di serio".
Paiono scritte per certi nostri uomini politici.


Fonte: Corriere della sera, Sette numero 12 22 marzo 2012


Lavoro: tra bisogno e desiderio

giovedì 5 aprile 2012

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Oggi vi propongo un articolo scritto dal lettore Fabio Cirillo. Vi invito a leggerlo e a riflettere su quanto scritto.
Buona lettura!




Il lavoro nobilita l’uomo, o lo rende simile alla bestia? 


Questi due aforismi popolari rendono perfettamente di un forte dilemma posto in essere dal pensiero moderno contemporaneo e non solo. 
Sembra doveroso a tal proposito cominciare da Max Weber, sociologo e filosofo del XX secolo,che studiò questo fenomeno, individuando nella dottrina protestante calvinista l’archetipo delle idee capitalistiche. I calvinisti individuavano nel lavoro una sorta di vocazione religiosa, un modo di indirizzare la propria anima verso la grazia divina e la salvezza, o, quantomeno, comprendere i piani che il divino ha per il soggetto. Il calvinismo propugnava l’accumulo di ricchezze nella vita, ma non finalizzate allo sperpero… per i seguaci di Calvino sembrano contare non tanto i guadagni, quanto l’atto di lavorare. Lavoro per il lavoro, l’ascesa sociale tramite il successo negli affari, Fielding, Marivoux, siamo alla grande topica dell’ephos borghese.  
Negli utopisti dell’umanesimo e nel rinascimento (More e Campanella) e in diversi giusnaturalisti (Rousseau in primis), il lavoro diviene un dovere sociale, una condizione dalla quale deriva benessere per l’intera collettività. Lo coesione sociale generata dal lavoro riveste pari importanza sia nella Rousseauiana età dell’oro (dove dalla mia autoconservazione dipende quella degli altri), sia nella Smithiana fabbrica di spilli (antenata di quelle fordiste e tayloriste).
Hegel, sottolineò come la teoria economica liberale avesse sopravvaluto lo spirito di cooperazione, la piena coesione sociale, il filosofo afferma che questa non può certamente svolgersi nella sola società civile, è necessario lo stato. La sua teoria del lavoro era tutta intesa nella dialettica servo padrone: allo stato di natura c’è sempre la celeberrima “guerra di tutti contro tutti”, questa è vinta da chi ha meno paura della morte, che diverrà il padrone, mentre l’altro, avendo preferito sottomettersi al primo anziché morire ne sarà il servo. Ora, il servo soddisfa i suoi bisogni mediando con la natura, mentre il padrone li soddisfa in maniera immediata (non-mediando) dato che conta sulla forza del servo. Tale situazione è comunque destinata a cambiare (e a rovesciarsi). Se prima la vita del servo dipendeva da quella del padrone (che accetta di non ucciderlo in cambio della sua sottomissione), il rapporto ora si inverte, è la vita del padrone a dipendere da quella del servo (dato che questi, a differenza del primo, ha assunto quel sapere che trasforma la natura). La dialettica è comunque destinata a sintetizzarsi nello stato, l’entità capace di garantire la sopravvivenza del corpo a prescindere dai rapporti di servitù. 








Marx è sicuramente meno ottimista di Hegel, egli afferma che, nel mondo capitalista, il lavoratore non è capace di acquisire quella sapienza che lo realizza. Il proletario è alienato: alienato dal prodotto, che non è suo, ma del capitalista; alienato dalla sua attività lavorativa, ad esempio, in una catena di montaggio per la produzione di sedie, il lavoratore non crea una sedia, mette semplicemente un chiodo in un asta di legno, e non può quindi riconoscersi nel prodotto finito; alienato dalla sua essenza, dal fatto di trasformare la natura con il suo lavoro, sono le macchine a trasformare, a creare, il soggetto presta semplicemente forza meccanica; alienato dal rapporto con l’altro uomo. Tale condizione porta il lavoro a non soddisfare più bisogni propriamente umani, ma bisogni che appartengono all’uomo quanto a qualsiasi altro animale (sopravvivere e riprodursi).


Nietzsche di canto suo indica come il lavoro dissipi l’otium, il “tempo libero” dedicato alla riflessione, al perdersi e alla fuga. 


Il maggior contributo novecentesco in questo campo arriva però da Freud. Come é ben noto, egli afferma che la psiche è su un diverso piano rispetto alla mente, e quindi vive di energie proprie, in primis la libido. In un suo trattato del 1930, "Il disagio della civiltà", egli descrive, dal punto di vista psicologico i problemi della civiltà capitalistica: parte dalla descrizione dei bisogni del infante e del fanciullo: all’inizio della nostra vita attraversiamo tre fasi, quella orale, in cui proviamo piacere nel nutrirci al seno, quella anale, nel cui proviamo piacere a defecare, e quella pubica, nella quale subentra la masturbazione. Queste tre fasi sono dette narcisistiche, riferite dal soggetto verso il soggetto, e soddisfatte in maniera immediata, ivi nasce il principio di piacere. Questo però sarà ben presto contrastato dal principio di realtà, secondo il quale per ottenere un piacere, il soddisfacimento di una pulsione, dobbiamo investire energie libidiche. La soddisfazione del bisogno ovviamente non dipende solo dalla quantità di libido impiegata, ebbene tali energie devono comunque trovare risposta nella realtà, e a tal proposito che si fa ricorso alla coscienza morale, tale ricorso avrà come conseguenza il rafforzarsi della funzione del super-ego come censura. 
Il freudiano disagio della civiltà consiste proprio in un principio di piacere che la realtà è perennemente incapace di soddisfare. Ciò si collega strettamente al tema del lavoro, col lavoro l’individuo mette in atto un processo di sublimazione, ovvero lo spostamento di una pulsione sessuale verso una meta non-sessuale. Non potendo contare su un immediato soddisfacimento di un bisogno, è necessario per ottenerlo una mediazione con il principio di realtà.  
È, a questo punto, fondamentale fare una distinzione tra bisogno e desiderio. Il primo è generato dall’aspetto biologico naturale dell’essere umano. L’ uomo, anche allo stato naturale, ha bisogno di nutrirsi, e per fare ciò deve lavorare, un azione protesa al soddisfacimento di un bisogno è un lavoro (che sia un turno in fabbrica, il cacciare selvaggina, o il cogliere un frutto da un albero). Nutrirsi, preservarsi dalle condizioni naturali, questi sono bisogni. 








Per quanto concerne il desiderio, il dibattito tra gli studiosi è in continua evoluzione: Lacan, nel suo continuo confronto con Freud,  individua nell’io due istanze, quella etica, e quella del desiderio. Il filosofo si rifà a Saussure e ad altri strutturalisti, affermando che la realtà è costituita dal linguaggio (non solo la parola, ma anche i codici visivi ed i suoni). Il mondo è quindi conosciuto mediante dei significanti, la lang è l’insieme di tutti i segni, ma tali segni sono una datità, non sono frutto del mio io, quindi mi appaiono vuoti, come significanti senza significati, nonostante questo sono l’unico modo che abbiamo per definire la realtà. L’io stesso, frammentario alla nascita, desidera di tornare all’origine, all’unità (alla madre), ma ciò è impedito dall’istanza etica (il padre). Il vuoto dietro al segno, il sentirsi frammento disunito genera il desiderio. Questi nasce a prescindere dal bisogno, il desiderio è pulsione d’essere, non un qualcosa di biologico.  
Le teorie di Gilles Deleuze sul desiderio sono ancor più radicali, dal suo confronto con Freud e con la psicoanalisi in generale nasce un geniale trattato dal titolo Anti-Edipo, in cui la psicologia è imputata di aver ridotto la “macchina desiderante” umana alla tragedia delle mura familiari, appunto l’Edipo, di aver reso l’inconscio come una rappresentazione teatrale ove i ruoli (di Amleto e Laerte ad esempio) sono sempre gli stessi. L’io è come una fabbrica, non come un teatro, i rapporti sono dinamici, così come la libido non spinge solo verso le pulsioni sessuali dettate dall’infanzia e dalla figura della madre. L’oggetto del desiderio, afferma Deleuze, non è mai un singolo oggetto, od un rapporto con questi, quando desideriamo noi costruiamo, creiamo, non si desidera una donna od un vestito, si desidera un insieme, ma non un insieme di oggetti o di rapporti tra noi e questi, più che desiderare un insieme si desidera “in un insieme”, ovvero si costruisce un cosmo (posizione questa molto vicina Goodman).
Lacan e Deleuze sono quindi molto vicini, se il primo sottolinea il vuoto dovuto a significanti inadeguati ai significati del desiderio, il secondo indica come il desiderio stesso dia una altra connotazione a questi segni che rappresentano il mondo. 
Desiderio e bisogno sono realtà totalmente diverse, per riprendere Marx, possiamo dire che il lavoro per soddisfare il bisogno è caratteristica di ogni animale, il lavoro, relazionato col desiderio, è la prerogativa del lavoro umana.
Le energie libidiche sono protese si verso la soddisfazione del bisogno sia verso quella del desiderio. 
Nella società moderna, caratterizzata dal capitalismo e soprattutto dalla potenza delle istituzioni, il lavoro umano, quello proteso alla soddisfazione del desiderio non appare come un qualcosa di lontanissimo. Tanto che il primo Mercuse (quello più ottimista), sostenne che il progresso del capitalismo avrebbe portato gli uomini a dedicare meno tempo al lavoro e quindi ad avere più tempo libero da dedicare all’otium, al desiderio. Nei trattati successivi egli stesso riconosce d’aver peccato di ottimismo. Primo obiettivo delle istituzioni è la tutela della pace, questo è ottenuto mediante coercizioni, tali da non permetterci di desiderare oltre certi limiti, in primis mortifica quello spirito violento, di distruzione e di autodistruzione, definito già da Freud “tahntaros”, che fa parte dell’uomo almeno quanto lo spirito di amore e di autoconservazione (eros).  Non dimentichiamoci poi del consumismo e dei media, che, agendo anche (e soprattutto) sui giovanissimi, ingrandisce questi limiti entro cui “desiderare”. Ma desiderare, come abbiamo visto, vuol dire proprio abbattere i limiti, costruire un nuovo mondo, ed è proprio questo che il mondo costituito combatte. 
Siamo in una società anti-desiderante, anti-umana. Il lavoro voluto dalle istituzioni, è soddisfazione di bisogni e null’altro, e la tutela di questi bisogni da maggior ragione alle istituzioni. Un circolo vizioso in pratica, dal quale se ne può uscire solo con la volontà di desiderare, malgrado ciò che da sempre ci viene presentata come realtà.        


                                       
                                                                                     Fabio Cirillo

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