" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Cibo e filosofia

lunedì 28 febbraio 2011

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Nelle antiche raffigurazioni iconografiche la filosofia era rappresentanta come un'orsa colta nell'atto di divorarsi la zampa. Questa figura era simbolo dell'autosufficienza della disciplina che, come recitava il motto che spesso si accompagnava all'immagine, "ipse alimenta sibi", "trae da se stessa il suo proprio nutrimento". Tuttavia, al destino autofagico della filosofia può fungere da divertente appendice aneddotica l'esame di quello che già Michel Onfray chiamava "il ventre dei filosofi". Guardare i filosofi dal punto di vista della pancia, infatti, può riservare qualche divertente sorpresa. Per esempio, Platone era ghiottissimo di fichi secchi e olive, che divorava anche all'Accademia, fra una lezione e l'altra. Se Platone preferiva, per così dire, degli stuzzichini, le abitudini alimentari di Aristotele dovevano essere, indubbiamente, più ricercate dal momento che la tradizione ci dice che avesse una ricchissima collezione di pentole. Le prime prescrizioni dietetiche in filosofia risalgono tuttavia a Pitagora che, circa un secolo prima di Socrate e Platone, per i seguaci della scuola pitagorica aveva prescritto una dieta prevalentemente vegetariana, a base di verdure cotte e crude, sale, pane, acqua pura, vietando assolutamente il consumo del pesce fragolino, del melanuro, della matrice, della triglia, del cuore degli animali e delle fave. Epicuro, invece, pare debba la cattiva nomea dell'epicureismo non solo al frutteto dove si incontrava con i suoi discepoli - il Giardino che diede nome alla sua scuola -, quanto al suo debole per il formaggio cotto in una pentolina, una specie di fonduta valdostana ante litteram. 




 Diogene e i cinici furono gli inventori del "fast food", perché per primi predicarono la necessità di consumare i cibi per strada e in piazza, senza troppe cerimonie né preparazioni, nutrendosi contemporaneamente (e quindi, si suppone, in una forma che ricorda il moderno sandwich o il panino) del pane che faceva da piatto e del companatico che esso conteneva, in genere una manciata di lenticchie o di lupini, fichi secchi o olive. Di Zenone di Cizio, caposcuola degli stoici, è nota la predilezione per i fichi verdi, il miele e il vino. Di quel Carneade su cui s'interrogava il don Abbondio manzoniano, che fu uno scettico in seno alla scuola platonica, non conosciamo i gusti alimentari, ma sappiamo che era solito farsi imboccare da una schiava, perché, tutto assorbito dai suoi pensieri, dimenticava persino di portare il cucchiaio alla bocca. Per venire a tempi più recenti è nota l'assoluta predilezione di Kant per la senape, con cui insaporiva i pranzetti che, a detta dei biografi, il filosofo era solito preparare per gli allievi più cari. 
Ma il debole di Kant era il caffé, di cui, nonostante temesse gli effetti nocivi, si concedeva ben due tazze ogni mattina. Fra i secondi la predilezione di Kant andava senza dubbio al baccalà, di cui, anche quand'era sazio, non disdegnava di "fare il bis", magari con il piatto "fondo" ben pieno. A detta dei biografi, poi, Kant a tavola, lungi dall'intrattenere i commensali con discorsi filosofici o sulla rivoluzione che, in quegli anni, era all'"ordre du jour", preferiva discettare, con minuziosa precisione, sulle pietanze e sulle loro ricette che, se invitato, non esitava a richiedere insistentemente ai padroni di casa. Altra cosa, di certo, rispetto a quei fiocchi d'avena di cui, a quanto pare, si nutriva quasi esclusivamente l'ascetico Wittgenstein. Completamente digiuno di cucina era, al contrario di Kant, il buon marchese di Condorcet, la cui scarsa confidenza con pentole e pignatte fu, a suo modo, fatale. Durante la fuga dalla ghigliottina, infatti, il blasonato "philosophe" del progresso infinito dell'umanità giunse sfinito ad un'osteria di campagna e, per rifocillarsi, chiese allo stupito avventore un'omelette di ben dodici uova.




 L'oste, insospettito, lo consegnò subito alle "cure" dei sanculotti. Sulla predilezione dei filosofi per la bevanda dionisiaca per antonomasia ci sarebbe, poi, molto da dire - Massimo Donà, di recente, ce ne ha dato ampio assaggio con la sua "Filosofia del vino" -, cominciando da quel buon rosso (non si sa se fosse un Bourgogne, in onore della Révolution, o un nostrano Barolo, come anche poco prima di morire Hans Georg Gadamer confidava di preferire) che Hegel stappava ogni 14 luglio, per ricordare la presa della Bastiglia, e ogni 31 ottobre, per commemorare l'inizio della Riforma protestante, o dal rosso bordolese del quale Montesquieu in persona curava la vendemmia. Ma non avendone lo spazio, ci limitiamo a ricordare quella del religiosissimo Kierkegaard, che associava volentieri il vino al pollo (arrosto o lesso non ci è dato sapere). Più vicina a noi va ricordata la passione di Martin Heidegger per il "Kartoffelsalat" e, in negativo, l'assoluta imperizia di Ernst Cassirer in cucina. Entrandovi forse per la prima volta durante un'influenza della moglie, il filosofo delle "forme simboliche" mise a scaldare il latte sul fuoco con tutta la bottiglia, producendo una disastrosa esplosione che, negli ambienti accademici tedeschi, fa ancora sorridere.

Fonte:  Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006

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