" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Filosofia araba

mercoledì 2 marzo 2011

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Caratteri e origini.




Tra le condizioni che più efficacemente stimolarono l'attività culturale dell'Occidente nel secolo XII furono i rapporti con il mondo orientale e soprattutto con gli Arabi. Il mondo arabo aveva infatti già assimilato, nei secolo precedenti, l'eredità della filosofia e della scienza greca, che ancora rimanevano in gran parte ignote alla cultura occidentale: la quale conosceva di esse solo quanto era riuscito a filtrare attraverso l'opera degli autori latini e dei Padri della Chiesa.
Inoltre, e forse appunto per questo, la filosofia araba appariva ai pensatori occidentali come la manifestazione stessa della ragione e quindi come forza di liberazione dalle pastoie della tradizione.
Abelardo di Bath non esitava a contrapporre ciò che egli aveva appreso "dai maestri arabi", sotto la guida della ragione alla "cavezza dell'autorità" da cui erano trascinati coloro che seguivano la tradizione ( Quaest. Nat., 6). In terzo luogo, la filosofia occidentale aveva in comune con le filosofie orientali la natura stessa del suo problema.
Anche la filosofia araba è una scolastica cioè il tentativo di trovare una via d'accesso razionale alla verità rivelata; e la verità rivelata cui essa cerca di accedere, quella stabilita dal Corano, ha molti caratteri di somiglianza con quella cristiana. Infine, come la filosofia cristiana, la scolastica araba vive a spese della filosofia greca, specialmente del neoplatonismo e dell'aristotelismo.



Tutto questo spiega l'influenza e la penetrazione profonda che il pensiero arabo ha esercitato nella scolastica cristiana nel XIII e XIV. In alcuni punti, tuttavia, le due scolastiche dovevano rivelarsi inconciliabili. La sintesi cui giunsero i maggiori rappresentanti della scolastica araba, Al Farabi, Avicenna, Averroè, è sotto l'insegna del principio della necessità. La necessità domina il mondo divino ed umano: tale è la condizione dei grandi filosofi arabi. Ad essa non sfugge il mondo delle cose finite che è necessario non di per sé, ma per la sua dipendenza da Dio: né sfugge la volontà umana, dominata da una catena causale, attraverso gli avvenimenti del mondo sublunare e i movimenti delle sfere celesti, mette capo all'Essere necessario. La scolastica latina, pur ricevendo l'aristotelismo attraverso gli Arabi, dovrà quindi effettuare il tentativo di sottrarlo al principio di necessità e di introdurre in esso un principio di contingenza che permetta di salvare insieme la libertà creativa di Dio e il libero arbitrio dell'uomo.
La prima attività filosofica nacque presso gli Arabi dai tentativi di interpretare certe credenze fondamentali del Corano.








Cosi la setta dei Kadriti affermava il libero arbitrio dell'uomo di fronte alla volontà divina, mentre quella dei Jabariti affermava il fatalismo assoluto. Nel II secolo dell'Egira (732-832) si diffuse la setta dei Motazal o dissidenti, che affermavano energicamente i diritti della ragione nell'interpretazione della verità religiosa. Essi misero in voga il Kalam (scienza della parola), cioè la teologia razionale.
A partire dal califfato di Haroun El Raschid (785-809), gli Arabi cominciarono a familiarizzarsi con la cultura greca. Le traduzioni arabe delle opere di Aristotele e degli altri autori greci furono dovute, in generale, a dotti cristiani siriaci o caldei, che vivevano in gran numero come medici alle corti dei califfi.
Le opere di Aristotele furono tradotte in gran parte dalle traduzioni siriache, che, fin dal tempo dell'imperatore Giustiniano, avevano cominciato a diffondere in Oriente la cultura greca.
Tra le opere che esercitarono più profonda influenza sul pensiero arabo c'è una Teologia attribuita ad Aristotele, che è un centone di passi desunti dalle Enneadi di Plotino, e il Liber da causis, che è la traduzione degli Elementi di teologia di Proclo.
Oltre questi scritti e le opere di Aristotele contribuirono a formare il pensiero arabo i commenti di Alessandro di Afrodisia, i dialoghi di Platone, specialmente la Repubblica e il Timeo, e le opere scientifiche di Euclide, Tolomeo e Galeno.
Una reazione dell'ortodossia religiosa contro le novità introdotte dai filosofi fu costituita dai Mutakallimun (= disputanti). L'affermazione fondamentale dei Mutakallimun è la novità e la discontinuità del mondo, che rende necessaria l'esistenza di un Dio creatore. Essi adottano la dottrina atomica di Democrito, che conoscono probabilmente dall'esposizione di Aristotele.






Gli atomi, essi dicono, non hanno né quantità né estensione, e sono creati da Dio sempre che egli lo vuole. Le cose risultano dall'aggregazione degli atomi e le loro qualità non potrebbero durare in due istanti, cioè in due atomi di tempo, se Dio non intervenisse continuamente a crearle. Quando Dio cessa di creare, le cose, le loro qualità e gli atomi stessi cessano di essere. La discontinuità rende necessaria l'incessante azione creatrice di Dio e garantisce la libertà della creazione.
A rafforzare questa tesi i Mutakallimun negavano la relazione di causalità fra le cose. Le cose create non hanno tra loro relazioni di causa ed effetto. Il fuoco ha l'abitudine di allontanarsi dal centro della terra e di produrre calore; ma la ragione non si rifiuta di ammettere che il fuoco potrebbe muoversi verso il centro e produrre freddo, pur restando fuoco. I nessi causali non hanno alcuna necessità intrinseca: essi sono stabiliti unicamente da Dio. Dio, più che causa prima è causa agente ed efficiente e produce direttamente tutti gli effetti del mondo creato.








Al principio del X secolo queste dottrine dei Mutakallimun furono riprese da un'altra setta, quella degli Ascariti, cosi chiamati da Abul Hassan El Ascari (873-935), di Bassora. Gli ascariti esagerarono ancora la dottrina della creazione diretta da parte di Dio, affermando che tutte le qualità accidentali nascono e spariscono unicamente per atto di creazione della volontà divina. Così, per esempio, quando un uomo scrive, Dio crea quattro accidenti che non sono legati assieme da alcun nesso causale e cioè: la volontà di muovere la penna, la facoltà di muoverla, il movimento della mano, il movimento della penna.
Al movimento filosofico determinato al lavorìo di queste sette si sostituisce in seguito l'azione di vere e proprie personalità filosofiche, che in parte utilizzano e continuano le dottrine delle sette stesse, e in parte si oppongono ad esse nel tentativo di mantenersi fedeli alla dottrina dei filosofi greci e specialmente di Aristotele.
Fonte: Abbagnano.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto ben spiegato . Sei grande.
Roberto

Daniel ha detto...

IMolto interessante... però non ho ben chiaro il principio di necessità...

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