Il senso della distanza che mancava nel Medioevo matura nell'Umanesimo e nel Rinascimento. La parola stessa "rinascimento" indica una rinascita dopo un'epoca di mezzo e mostra dunque l'idea di un certo sviluppo storico che si manifesta nella ripresa dei classici greci e non solo. Con l'ermeneutica del Rinascimento si assiste quindi a un mutamento, proprio perché il rapporto con i testi dell'antichità classica comincia a configurarsi come problema del rapporto con un mondo che si avverte come perduto e che si cerca di riproporre come presente.
Il maestro scolastico infatti avvertiva ancora il latino come la propria lingua e concepiva così ancora una certa unità tra la sua cultura e quella classica.
L'umanista invece ha chiara la distanza e se torna al latino dal volgare, divenuta la sua lingua, è conscio dell'impossibilità di colmare completamente lo iato.
Per questo il lavoro filologico - che ridimensiona l'interpretazione figurale - ha un doppio carattere: da una parte, intende recuperare i documenti di una civiltà di cui ci si sente eredi e, dall'altra, si propone di elaborare nuove forme di vita, ispirate agli antichi ma rispondenti alle esigenze del tempo (secondo una prospettiva che potrebbe far pensare ad una sorta di produttività della distanza temporale).
E' però con quella "rottura della tradizione" rappresentata dalla riforma protestante che si suole porre l'inizio dell'ermeneutica moderna, per via del sorgere progressivo di quella coscienza del problema ermeneutico come coscienza dell'alterità che era sostanzialmente estranea ad ogni precedente concezione dell'interpretare.
La Riforma è anche un atto ermeneutico che si lega strettamente alla rottura con Roma, sede del Cristianesimo. Lutero, infatti, da un lato, accusa il Papa e la gerarchia ecclesiastica di comportamento indegno, non proponendo però una gerarchia diversa; dall'altro, si oppone all'idea cattolico-romana secondo cui per arrivare alla salvezza ci vogliono due pilastri, la Scrittura e la tradizione.
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