Buona lettura!
Tra i contributi che Martin Heidegger,
uno dei più grandi pensatori del XX secolo, ha dato alla filosofia,
i principali sono certamente l’idea di differenza ontologica
(l’esser-ci dell’ente), e la teoria dell’essere-per-la-morte.
Emmauel Lévinas (1905-1995), filosofo
lituano, in lingua francese, prese le fila del suo ragionamento
proprio da Heidegger. Egli sosteneva che se ogni essere è quello che
è qui ed è ora, e se ogni possibilità dell’essere è scandita
dai tempi della morte, allora ogni ragionamento etico è solo ironia.
Nell’esser-ci l’azione etica (per come la intendeva Kant, ovvero
attraverso l’intento) non può avvenire.
Il darsi dell’altro è percepito dal
medesimo attraverso una riduzione, tale riduzione è violenza,è una
violenza propria dell’essere, l’uomo percepisce gli oggetti
attraverso il darsi di questi ai propri sensi, non ha altro modo di
percepire se non i sensi stessi, quindi la fenomenica riduzione
dell’altro al medesimo è una violenza irrimediabile.
La pace non è vista in se, bensì come
una condizione transitoria tra una guerra e l’altra, una situazione
immanente nella quale il medesimo è incatenato dato che è qui ed è
ora, e questo essere qui ed ora è dettato dal rapporto col non
essere, col nulla, con la morte.
Dove allora può accadere l’etica?!
Lévinas afferma che questa è
possibile, ma deve prevedere una non riduzione dell’altro al
medesimo, un paradossale percepire l’altro in assenza dell’io che
percepisco, in assenza (o meglio “prima”) del mio esser-ci. Come
questo può accadere se l’essere è “gettato” al mondo, è
gettato nel suo “qui ed ora”?
Levinas oppone all’esser-ci
heideggeriano un altrimenti-che-essere:
il darsi del volto dell’altro (“la
vedova, l’orfano e il forestiero” immagini prese dalla Tohrà)
genera nel mio esser-ci una paralisi, io non sono più qui ed ora, ma
sono ostaggio dell’altro, io patisco per l’altro, provo il dolore
dell’altro a prescindere dalla mia esistenza. Io non “ci sono”,
eppure sono (altrimenti-che-essere), sono in identità con l’altro
prima di esservi in differenza, e questa differenza avviene proprio
grazie al fatto che il mio essere qui ed ora è paralizzato.
Come questo meccanismo si traduce in
prassi? Come torno al mondo?
Grazie alla comparsa del terzo, un
altro prossimo che attraverso la sua esistenza mi “libera” dalla
“paralisi”… la fenomenologia del volto ha generato però in me
una epifania, quando tornerò al mondo non avrò “dimenticato”
ciò che ho “appreso” in identità con l’altro. Tornerò nel
mio esser-ci come soggetto Giusto. Tale giustizia può portare ad una
coscienza e quindi ad una trascendentale etica che ponga la pace come
condizione assoluta e non come periodo transitorio tra una guerra e
l’altra.
Per quanto utopistica sia, l’etica
lévinasiana, intriga ed affascina soprattutto a livello teoretico e
pratico, (forse un po’ meno a livello storico e politico, quando
diverrà una apologia allo stato di Israele).
Jaques Derrida (1930-2004) critica le
teorie di Lévinas asserendo che in realtà, tra il medesimo e
l’altro, e tra il darsi del secondo al primo, non c’è
immediatezza alcuna, e che la paralisi stessa (che comunque continua
a sussistere) è violenza.
Chiediamoci a questo punto se una
azione morale, causata dall’epifania del volto, sia davvero tale:
un atto, per essere definito morale,
prevede il libero arbitrio da parte di chi lo compie. Immaginate che
Dio abbia già scritto il mio destino e mi abbia mandato al mondo, se
io ucciderò qualcuno o ne salverò la vita, di tale azione non me ne
si può dare ne la colpa ne il merito, io non ho possibilità di
oppormi ad un qualcosa di già scritto, non c’è possibilità, nel
caso del destino ve n’è solo l’illusione, se io sono destinato
ad uccidere, per quanto voglia non uccidere, non ne ho la
possibilità.
Se in ambito determinista non esiste
morale, in ambito possibilista si: se io ho due possibilità e tra le
due posso scegliere liberamente (posso uccidere quanto non uccidere)
attraverso la mia volontà, allora Della scelta che prenderò io sarò
responsabile, e quindi mi sarà potuta dare la colpa o il merito ( a
seconda del ragionamento morale).
L’azione etica conseguente al darsi
del volto non è libera: essendo il mio esser-ci paralizzato, io non
adopero la mia volontà, quindi io non sono responsabile dell’azione
compiuta. Nell’altrimenti-che-essere io non adopero la mia volontà,
e se l’azione che compio non è da me voluta, allora non me ne si
può dare il merito (quindi l’eticità).
L’azione morale che consegue
l’epifania del volto non è libera, non è una possibilità, è
bensì determinata, come se fosse destino!
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