" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare.

lunedì 28 febbraio 2011

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Homo animal edax
Nel frontespizio del primo volume dell'"Almanach des Gourmands" di Grimond de la Reynière, stampato nel 1804 a Parigi, è raffigurata una strana e singolare libreria. Si tratta della biblioteca del goloso. Qui, sui lignei e seriosi scaffali a muro rappresentati nell'incisione che, alti e profondi, giungono fino al soffitto e fanno pensare al facile anacronismo di un gigantesco e capiente frigorifero, trovano posto, accostate in luogo dei volumi rilegati in pelle e oro zecchino, provviste alimentari d'ogni tipo. Ci sono il porcellino da latte, il cappone, i salumi e i paté, liquori, formaggi e bottiglie di vino, boccali di frutta sotto spirito, vasi di verdure sott'olio e sott'aceto, budini farciti, panettoni e dolci ripieni. Al centro della stanza, una tavola imbandita di leccornie sostituisce lo scrittoio dell'erudito, mentre dal soffitto, a mo' di lampadario in vetro di Murano, pende un enorme e gustoso prosciutto. Leggere è mangiare, scrivere è cucinare. Parola e cibo, sapere e sapore sono, nella nostra cultura, circondati da un'aria di famiglia che lo stesso linguaggio si affretta a testimoniare. Noi abbiamo "appetito" di conoscenza, "sete" di sapere o "fame" d'informazioni. Noi "divoriamo" un libro, "facciamo indigestione" di dati, "abbiamo la nausea" di leggere o di scrivere, non siamo mai "sazi" di racconti, "mastichiamo" un po' di inglese, "ruminiamo" qualche progetto, "digeriamo" a fatica alcuni concetti, mentre "assimiliamo" meglio certe idee piuttosto che altre. Noi ci "beviamo" una storia soprattutto se nel narrarcela sono state usate parole "dolci", invece di condirla con "amare" considerazioni, con battute "acide" o "disgustose", o, peggio, con allocuzioni "insipide" e "senza sale". Non a caso le storielle più "appetitose" sono quelle infarcite di aneddoti "pepati", di descrizioni "piccanti" e, vuoi anche, di paragoni "gustosi".





 Ecco allora che a partire dall'analogia fra il nutrimento del corpo e il nutrimento della mente è possibile riconsiderare il rapporto, in verità non troppo sotterraneo, fra il cibo e il pensiero. Fra le cose che distinguono l'uomo dagli altri esseri viventi vi è il particolare legame che egli, sin dall'inizio della sua storia, ha istituito con il cibo. Gli animali si nutrono, l'uomo mangia e, nel mangiare, non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme li pensa, ha, cioè, nei confronti dei cibi, un rapporto eminentemente simbolico. Il detto "parla come mangi", al di là dell'invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, tanto nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, quanto in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano. Se l'atto biologico di mangiare è sempre anche un atto simbolico, la prima sfera che il cibo incontra è quella religiosa. Nel sacrificio, come ci insegna il mito greco di Prometeo, è in ballo la stessa ripartizione delle risorse alimentari fra gli dèi e gli uomini. Allora, Prometeo non è soltanto colui che consegna agli uomini il dono del fuoco, ma anche il benefattore che, ingannando gli dèi con il fumo delle ossa, delle pelli e del grasso delle vittime sacrificali, consente agli uomini di cibarsi delle carni degli animali uccisi senza commettere sacrilegio. Nelle culture tradizionali, dietro all'aspetto rituale del mangiare vi è sempre l'ombra del sacrificio. 






Un sacrificio che stabilisce le regole alimentari, determinando i codici di ciò che è puro e di ciò che è impuro, di ciò che è lecito e di ciò che è tabù. Un sacrificio che doveva riguardare, all'inizio, lo stesso impiego e, in seguito, la sostituzione della vittima umana (remota testimonianza, forse, di un pasto cannibalico), come sembrano documentare i miti paralleli di Ifigenia, nella cultura greca, e di Isacco, in quella ebraica. Ma l'intrinseco simbolismo religioso del cibo si riflette sia nelle culture del sangue e della carne, che nelle culture prevalentemente vegetariane, come quella del riso. Già nel "Milione" Marco Polo raccontava dell'esistenza, in Cina, di ben 54 tipi di riso. In giapponese "gohan", significa "riso cotto", "pranzo" e "buon appetito", attestando la coincidenza di quest'alimento con la sfera dell'alimentazione tout court. In ogni chicco di riso si ritrova, così, l'anima della Dea Madre, che presiede alla fecondazione e alla generazione degli uomini. Questi ultimi, per non offenderla, avranno l'accortezza - a tutt'oggi ancora in vigore, in Oriente -, di cuocere il riso lontano dai campi in cui è stato colto. Il rapporto con il cibo come fonte di vita spinge l'uomo all'osservanza e al rispetto della natura. Anche quando, come nella cultura eschimese, l'unica fonte alimentare, o quasi, è rappresentata dalla carne degli animali, questo fatto è motivo di seria apprensione e di timore. "La vita è esposta ad un grande pericolo", dicono gli inuit della Groenlandia, "perché la nutrizione umana è basata sul consumo di anime". In questa prospettiva, la comparsa del pensiero filosofico, anche nella simbolica del cibo, sovverte laicamente il grande paradigma sacrificale della religione. Dal punto di vista più generale la filosofia è attività essenzialmente autofagica, autocannibalica.
Fonte:Giornale di confine, Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006




1 commenti:

Anonimo ha detto...

qualsiasi cosa rappresenta qualcosa..tutto il mondo è un simbolo..e il filosofo si siede alla tavola imbandita della vita..un momento cosi naturale e semplice nasconde kg di filosofia
baci mia stella fatata
Alessandro

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