" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi."
Friedrich W. Nietzsche

Avicenna: la metafisica (2 parte)

giovedì 3 marzo 2011

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Nel "Libro delle direttive" Avicenna insiste sulla superiorità di questa prova di Dio desunta dalla semplice considerazione dell'essere: "Quando consideriamo lo stato dell'essere, egli dice, l'essere è testimone di sé in quanto essere ed esso stesso, dopo di ciò, testimonia tutto ciò che viene dopo di lui all'esistenza".
Se l'essere necessario è assolutamente semplice, ciò che è possibile ed esiste solo in virtù dell'essere necessario non è mai semplice, giacché implica in sé due elementi: quello per il quale è possibile rispetto a sé, e quello per il quale è necessario rispetto ad altro.
La possibilità e la necessità entrano a comporre la sua natura rispettivamente come la materia e la forma. Avicenna interpreta, infatti, la distinzione aristotelica di materia e forma come distinzione tra il possibile e il necessario: la materia è possibilità, la forma, come esistenza in atto, è necessità.
Ciò che non è necessario di per sé, necessariamente è composto di materia e di atto, quindi non è semplice. L'essere che è necessario di per sé è invece assolutamente semplice, quindi privo di possibilità o di materia.
Questo concetto dell'essere necessario (necesse esse) è il cardine di tutta la speculazione di Avicenna. In primo luogo esso è il fondamento di quella distinzione reale tra l'essenza e l'esistenza che doveva diventare uno dei maggiori temi speculativi della scolastica cristiana nel secolo XIII e specialmente del tomismo. 
L'essere necessario è difatti l'essere che esiste per essenza o la cui essenza implica l'esistenza; mentre l'essere che non esiste in virtù della propria essenza esiste solo come effetto dell'essere necessario.





 
Questa distinzione sarà a fondamento del principio dell'analogicità dell'essere, fondamentale per il tomismo. In secondo luogo, l'essere necessario introduce in tutti i rami e le forme dell'esistenza la sua stessa necessità. 
Ogni contingenza o possibilità del reale è esclusa giacché il possibile non può passare all'essere se non per l'azione del necessario; ma con quest'azione diventa esso stesso necessario nella sua esistenza (per quanto non nella sua essenza). Questa radicale eliminazione della contingenza dell'essere (che implica fra l'altro la necessità della stessa creazione divina) è il punto fondamentale in cui la dottrina di Avicenna doveva venire in contrasto con le esigenze della scolastica cristiana interessata a mantenere la libertà della creazione e nella creazione.
Bisogna tuttavia osservare che,nonostante questa esclusione di ogni possibile dalla realtà, Avicenna espone un concetto del possibile assai più preciso e rigoroso di quello ammesso da Aristotele. Egli infatti distingue due sensi di possibile.










Nel primo senso possibile è il "non possibile"; in questo senso ciò che non è possibile è impossibile e pertanto lo stesso necessario è possibile.
Nel secondo senso, che è quello proprio, il possibile è una terza alternativa al di fuori dell'impossibile e del necessario e in tal caso il possibile è ciò che può essere o non essere; e né l'impossibile né il necessario possono dirsi possibili.
Ovviamente, in questo secondo senso il possibile si sottrae a quei paradossi cui dava luogo nella logica di Aristotele.
L'assoluta semplicità dell'essere necessario consente ad Avicenna d'intenderlo come assoluta unità, anzi di identificarlo con l'Unità stessa nel senso platonico.
Avicenna, come già Al Farabi, unisce il concetto platonico dell'uno a quello aristotelico dell'Atto puro; e nello stesso tempo identifica l'Uno e l'Intelletto, che invece i neoplatonici distinguevano.
"Poiché è il principio di ogni esistenza, l'Uno conosce da sé le cose di cui è principio: sa che è principio di quelle cose di cui ciascuna è perfetta nella sua singolarità (le cose celesti) e anche di quelle altre che sono soggette alla generazione e alla corruzione. Queste ultime le conosce sia nella loro specie, sia nei loro individui; ma quando conosce questi enti mutevoli, non li conosce cioè con una intelligenza individuale".
La derivazione di tutti gli esseri dall'Essere necessario non è una creazione intenzionale. Non sussiste un'intenzione creatrice nella Causa prima: questa intenzione implicherebbe una molteplicità di elementi nella natura dell'Uno, che è invece semplicissimo. Bisognerebbe che la scienza e la bontà della Causa prima la costringesse ad avere questa intenzione o che questa le fosse suggerita dalla considerazione di una utilità o di un vantaggio che le potrebbe venire; e tutto questo è assurdo.
Non c'è in Dio né desiderio né bisogno né intenzione: Dio è causa in virtù della sua stessa essenza; e ciò di cui essa è causa, il mondo, segue necessariamente dall'essenza divina. Il mondo così è altrettanto eterno che Dio.








La derivazione del mondo da Dio accade (come già Al Farabi aveva asserito riproducendo Plotino) attraverso il pensiero del pensiero cioè attraverso la scienza che Dio ha di sé o l'autoriflessione divina.
"La causa prima è una intelligenza unica, che conosce se stessa: necessariamente dunque conosce tutto ciò che risulta da sé, sa che l'esistenza di tutti gli esseri nasce da sé, che essa è il principio e che non c'è niente nella sua essenza che impedisca alle cose di derivare da essa".
Anche la Provvidenza, cioè il governo del mondo, si esercita allo stesso modo: Dio conosce l'ordine secondo il quale il bene si distribuisce nel mondo e per questa semplice conoscenza il bene stesso deriva da Lui in modo tale che ne deriva l'ordine più perfetto possibile.
Avicenna è veramente il filosofo della necessità assoluta. Nulla per lui si sottrae al principio che ogni essere è necessario: neppure la volontà umana.
Le decisioni della nostra volontà devono avere una causa, come tutto ciò che passa all'essere dalla semplice possibilità. Ma la serie delle cause che le producono rimonta al di là dell'anima stessa, agli avvenimenti terrestri.
Ora gli avvenimenti terrestri sono determinati da quelli celesti: dunque la serie di tutti gli effetti dipende necessariamente dalla necessità della volontà divina.








"Se fosse possibile ad un uomo, dice Avicenna, conoscere tutte le cose che accadono in cielo e in terra nella loro natura, egli conoscerebbe tutti gli avvenimenti futuri e anche il modo del loro accadimento".
Da ciò egli ricava la giustificazione della predizione astrologica. Certamente l'astrologo non può dall'ispezione del movimento dei corpi celesti trarre predizioni infallibili, ma ciò è dovuto alla molteplicità delle circostanze da cui dipende l'avvenimento futuro, molte delle quali sfuggono alla sua considerazione, non alla falsità o insufficienza della sua scienza.
Fonte:Storia della filosofia di Abbagnano

1 commenti:

Anonimo ha detto...

molto interessante anche questo..la necessità divina della creazione è un concetto che porta Dio più vicino al semplice esplicarsi delle cose che noi umani possiamo percepire, è onnipotente ma respira la nostra aria
Alessandro

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